Saturday 30 June 2007

CI HO PRESO GUSTO! :-P

Ci ho preso gusto, ok?
Visto che sembra che i miei racconti abbiano un certo "successo", ho deciso di pubblicarne altri. Ne ho una cifra! Molti, specialmente quelli dal 1991 al 1994, sono andati perduti. Il più vecchio risale al 1995. Questo, se non erro, è del 1998. E guarda caso è ambientato a Dublino (già allora avevo la mania dell'Irlanda :-P).
Avevo 17 anni, ero idealista, visionaria, sognatrice e ingenua quando lo scrissi. Divoravo al ritmo di uno/due la settimana, romanzetti gialli, storie di fantasmi, i libri di Anne Rice e di Stephen King (senza contare gli altri). Quindi l'influenza di questi autori si sente, mischiata ad una buona dose di fantasia adolescenziale e ingenua che li rende particolarmente adatti ad un pubblico adolescenziale.
A voi i giudizi. I miei li tengo per me!

L’ANGELO VENDICATORE

Abyssus abyssum invocat!*

I.

“Mary, vieni giù a fare colazione, o farai tardi a scuola!”.

“Preferirei non frequentare più quella dannata scuola!” disse Mary, allacciandosi le scarpe.

Mary Mitchell non era certo la classica ragazza popolare. Quindici anni, era piuttosto sciatta e chiusa in se stessa, cosa che le impediva di fare amicizie e quindi la costringeva a rimanere sempre a casa da sola. L’unica sua amica sincera era Helen, timida quanto lei. Una sola cosa Mary le invidiava: era sempre circondata da ragazzi. Non che fosse bella, ma aveva un modo di fare che ispirava simpatia al primo colpo. Mary, invece, non parlava mai con nessuno e i maschi la snobbavano.

Fece una colazione veloce e si incamminò, tranquillamente, verso la fermata del bus. Faceva un freddo cane quella mattina, ma Mary camminava a passi lenti, nella speranza di perdere l’autobus e quindi di rimanere a casa. Non aveva ancora fatto un’assenza dall’inizio dell’anno, poteva anche permettersi un giorno di vacanza.

Avrebbe fatto di tutto pur di non tornare in quella scuola. La odiava, ma sopra ogni cosa odiava Marla Ants e le sue amiche. Si divertivano a fare scherzi a tutte le sue compagne, ma i più cattivi li facevano a lei. L’avevano eletta ufficialmente lo zimbello della classe, e come tale la facevano sempre sentire. Non perdevano mai occasione per umiliarla, picchiarla, per farle un’infinità di scherzi, a volte anche molto pesanti. Una volta le sparsero della polvere urticante nella maglietta, rompendole pure la catenina d’oro, regalo della sua povera zia. Un’altra volta Marla le aveva rovesciato nella cartella della cioccolata per poi deriderla dicendo: “Assomiglia tanto alla merda che sei tu!”. Parecchie volte le erano spariti dei soldi, mai grandi somme, ma che comunque le servivano per i suoi piccoli acquisti, obbligandola a rinunciavi. Avrebbe dovuto reagire, ribellarsi, come facevano tutte. E lo aveva pensato più volte, ma non ce la faceva. I suoi genitori le avevano sempre insegnato ad abbassare la testa, e lei lo faceva. Anche perché era una vigliacca, una nullità. A volte si chiedeva perché fosse nata.

L’autobus si fermò, facendo stridere i freni. Mary salì con passo incerto e con il cuore in gola, pronta ad iniziare una nuova, terrificante giornata scolastica. Occupò l’ultimo posto libero sul pullman, scatenando le ire di una ragazza che assertiva di averlo visto prima lei. Mary, per non litigare (soprattutto perché la ragazza in questione era molto più grossa di lei), le lasciò il posto. L’autobus partì, facendola cadere rovinosamente sul pavimento sudicio del mezzo e provocando le risate di tutti i presenti. La giornata iniziava proprio bene!

C’era una nebbia molto fitta. La visibilità era scarsa. L’autobus procedeva lentamente, fendinebbia accesi, attraverso le strade di Dublino. Spesso si fermava e rimaneva in coda, a causa di molti paurosi che non erano capaci di guidare con la nebbia. Mary, speranzosa, guardò l’orologio: erano le 8:25. Le lezioni iniziavano sempre alle 8:30. Sarebbe sicuramente arrivata in ritardo. Poco male, pensò, quella stronza di Marla rimarrà sicuramente a casa ed io avrò una giornata tranquilla.

Non fu così. Non appena Mary mise piede fuori dal mezzo, Marla era li, vestita da cubista come al solito, insieme alle sue amiche. La ragazza cercò in tutti i modi di non farsi vedere, mischiandosi tra la folla, ma lei la scorse lo stesso. Le si avvicinò, provocatoria. Le baciò la guancia destra, lasciandole il segno del suo rossetto color mattone. Un gesto di scherno. “Ciao, vergine Maria” iniziò “sento che oggi sarà una giornata molto divertente!”.

II.

“Credo che oggi Marla e company siano sul piede di guerra” sussurrò Helen “dobbiamo stare molto attente”.

Mary la guardò con la coda dell’occhio. Era sempre la stessa: trucco pensante, vestiti attillati, scarpe con la zeppa. Evidentemente si sentiva affascinante conciata in quel modo, e non si rendeva conto di quanto i ragazzi più grandi la considerassero ridicola, anche se decisamente sexy. Ecco perché tutti accettavano di andare in bagno con lei. Se solo Mary fosse stata aperta come lei! Almeno avrebbe potuto parlare, uscire con un ragazzo, una volta nella vita. Ma ormai si era arresa a rimanere vergine per sempre!

“Se solo…lasciamo stare” e distolse lo sguardo. Marla si era accorta che la stava guardando.

Noncurante dello sguardo della professoressa puntato su di lei, la ragazza cominciò a borbottare qualche cosa a Loreen, sua compagna di banco. Sussurrava e la guardava. A Mary si gelò il sangue nelle vene: stavano sicuramente preparando un altro scherzo da farle. Marla prese un foglio, cominciando a disegnarci sopra qualche cosa. Mary continuava a guardare di soppiatto cercando di capire, dai movimenti delle sue mani sulla carta, che cosa stesse architettando questa volta.

“Signorina Marla Ants, che cosa state facendo te e la tua amica?”.

Marla sussultò, nascondendo più in fretta che poteva il foglio che aveva sul banco. “Nulla signora. Stavamo solo prendendo appunti” si difese lei, ridacchiando.

La professoressa le guardò severa. “Vedete di piantarla di fare giochetti e state attente alla lezione. I vostri voti sono peggiorati ultimamente”.

“E sai a me che cazzo me ne frega” sussurrò a fior di labbra Loreen.

“Hai ragione” le fece eco Marla “a noi non interessano i voti che ci dai, stupida puttana!”.

Mary cercò di stare attenta alla spiegazione ma si sentiva osservata. Erano i loro occhi che la scrutavano, la deridevano, silenziosi. Quando si girò ancora verso di lei, Marla le rivolse un sorriso malvagio, mostrando i denti gialli e cariati. Pose ancora gli occhi sul foglio, continuando a scrivere qualche cosa. Anche Helen, Sylvia e Paula stavano guardando nella stessa direzione. Nessuna di loro sembrava aver voglia di ascoltare la lezione. Ormai era chiaro: quelle streghe stavano progettando sicuramente qualcosa di grosso ai loro danni.

III.

“Stanno progettando di farci uno scherzo fuori dalla scuola, ne sono sicura” ipotizzò Paula, passeggiando nervosamente avanti e indietro.

“No, non credo”.

“Invece si, Helen” azzardò Mary. “Ultimamente la preside le tiene sotto controllo, dopo che hanno picchiato quelle ragazze del secondo anno. Fare uno scherzo all’interno delle mura scolastiche, significherebbe l’espulsione!”.

“E questo non lo vogliono, altrimenti non potrebbero farci più quegli scherzi crudeli che ci fanno in continuazione!”.

“Oh meglio, perché il padre di Marla la gonfierebbe di botte!” ironizzò Sylvia. Tutte risero.

“Ma è già uscito di galera?” domandò Helen. “Non doveva scontare altri tre mesi?”

“E’ uscito per buona condotta, ma non rimarrà fuori a lungo” ribadì Paula. E risero ancora tutte insieme.

Perché Marla, Loreen, Sabina e Rita si erano accanite tanto con loro? La risposta era semplice: il loro rendimento scolastico. Sylvia otteneva sempre A+ in tutte le materie, Paula era bravissima in matematica e inglese mentre Helen era un asso in chimica. Anche Mary era molto brava, ma per lei era diverso: loro la odiavano con tutte le loro forze, la trovavano ripugnante, meschina e malsana. L’avrebbero uccisa, fatta sparire per sempre dalla faccia della terra, se solo ne avessero avuto i mezzi. Mary non capiva il perché di tanto astio nei suoi confronti, in fondo non aveva fatto loro nulla di male. Forse era il suo viso smunto e brufoloso a destare disprezzo, forse il suo modo di vestire tanto sciatto e fuori moda, la sua timidezza oltre ogni limite, il suo modo di essere così dolce e remissiva con tutti. Forse era quello, ma Mary era sicura ci fosse dell’altro sotto, anche se non sapeva che cosa.

La campanella trillò allegramente, facendo capire che l’intervallo era concluso. Tutti gli studenti si diressero tranquillamente nelle loro classi, mentre i professori si apprestavano a finire di fumare le loro sigarette. Mary e le sue compagne presero velocemente i loro posti, nell’attesa dell’insegnante di matematica. Anche Marla e le sue amiche si accomodarono disordinatamente sul banco, confabulando e fissando Mary con fastidiosa insistenza.

La professoressa consegnò i compiti a tutti e Marla, come al solito, prese F. Non era turbata, al contrario. Ridacchiava e canticchiava sottovoce la sua ennesima sconfitta scolastica, dicendo che avrebbe comunque mollato e che della scuola gliene fregava meno che niente. Se solo se ne fosse veramente andata!

IV.

Era l’una: la nebbia si era diradata e un pallido sole autunnale cominciò a splendere pigro sull’istituto. Le lezioni finirono prima: l’insegnante di fisica si era sentito poco bene e aveva avvertito che non avrebbe tenuto la lezione pomeridiana. Tutti si erano precipitati come fionde fuori dalla scuola, felici di non doversi sorbire due noiosissime ore di fisica.

Mary e le sue amiche, però, uscirono per ultime. Helen, come al solito, ci aveva messo una vita a preparare la cartella. “Allora muoviti” urlò Paula “non vedi che ore sono?”.

“Un attimo, non trovo l’astuccio” lamentò Helen.

“Lo hai già messo via, tonta! Forza andiamo”.

“E il quaderno di matematica?”

“E’ stato il primo che hai messo via, rintronata”

“Il quaderno di biologia”

“Oggi non abbiamo avuto biologia, svegliati!”

Quando se ne andarono anche loro, tutto era silenzioso. Si avviarono a grandi passi verso la fermata degli autobus, trascinandosi dietro Helen che era lenta come una lumaca.

“Speriamo di non aver perso l’autobus” disse Sylvia “i miei torneranno a casa tardi oggi. Non mi va di fare 4 miglia a piedi con il freddo che fa!”.

“Non preoccuparti” la rassicurò Mary “lo sai che arriva sempre in ritardo!”.

Helen emise un urlo, cadendo rovinosamente al suolo. “Helen, ti sei fatta male?”.

“No. Sono inciampata in qualche cosa”.

“Sei inciampata nei tuoi stessi piedi, fessa!”.

Tutte si girarono verso la voce. Marla e le altre le stavano guardando, divertite. Nel giro di un attimo le accerchiarono, cominciando a lanciar loro addosso sassi e fango. Mary cercò di coprirsi il viso, mentre una valanga di pantano le ricadeva da ogni angolo e la ricopriva da capo a piedi. Osservò Helen e vide che stava sanguinando da un occhio: l’avevano colpita con un sasso appuntito.

“Brutte stronze, questa volta la pagherete!” la voce di Sylvia era colma di odio come non lo era mai stata prima.

“Ah si” la canzonò Marla “voglio proprio vederti, stupida ameba che non sei altro!”.

Il fango continuava a piovere loro addosso. Marla rideva, rideva, senza sosta. Mary cominciò a provare un odio fortissimo e implacabile nei loro confronti: adesso avevano veramente oltrepassato ogni limite. Come potevano essere tanto meschine e crudeli? Possibile che non riuscivano a capire che quel comportamento era stupido ed infantile? Ma in fondo, chi avrebbe fatto loro del male? Avevano meno di quindici anni e, quindi, non erano imputabili. E poi non stavano facendo niente che poteva essere punito dalla legge.

“Adesso basta, non vi siete divertite abbastanza?” domandò Mary.

“Taci vergine Maria. Io con te e le tue amichette deficienti faccio quello che voglio. Siete solo un branco di capre al pascolo, pesci lessi, cretine!”.

La tortura durò dieci minuti. Helen aveva una brutta ferita all’occhio: sarebbe stata costretta ad andare all’ospedale. Tutte quante erano coperte di fango da capo a piedi. L’autobus era ormai andato e le quattro ragazze furono costrette a tornare a casa a piedi, sporche, infreddolite e umiliate come nessun essere umano lo era mai stato in tempi moderni.

Visto che l’occhio di Helen non cessava di sanguinare, le altre decisero di accompagnarla all’ospedale. Mary non le seguì, preferendo tornare a casa. Stava troppo male per poter sopportare anche uno sguardo umano, ed era troppo triste per riuscire a trattenere le lacrime che le salivano rapidamente in gola. Voleva solo rinchiudersi in camera sua, a piangere in privato.

“Mary, per l’amor di Dio, ma che cosa ti è successo?” domandò preoccupata sua madre. “Sei coperta di fango da capo a piedi!”.

“Non ne voglio parlare. Io vado a farmi un bagno: se mi cerca qualcuno, fatti dire chi è e di che richiamerò io più tardi”.

V.

“Helen ha riportato una brutta ferita all’occhio: le hanno dato tre punti”. La voce di Paula era triste e rotta dal pianto. “Perché Mary, perché ci odiano tanto? Che cosa le abbiamo fatto?”.

Torturando il filo del telefono con l’indice, Mary non sapeva rispondere.

“Non credo che tornerà ancora a scuola, dopo quello che è successo: i suoi genitori erano furibondi. Hanno fatto una scenata da tragedia greca alla preside e hanno giurato che non l’avrebbero più mandata in una scuola pubblica. Da quanto mi ha detto Helen, credo la vogliano spedire in una scuola di suore”.

“Dove?” domandò Mary.

“Non lo so non hanno ancora deciso. Sicuramente lontano da qui”

Ci fu un attimo di silenzio. Mary continuò a torturare il filo del telefono, fino a quando le dita non le divennero rosse. Sentiva che la voce voleva andarsene via, per lasciare il posto alle lacrime.

“Tu che cosa hai intenzione di fare per domani, Paula?”.

“Non lo so proprio. I miei genitori hanno sporto denuncia, ma non so che cosa otterranno. Non credo, però, che decideranno di mandarmi in un’altra scuola”

“Domani verrai a scuola?”.

“Certamente. Sarebbe una doppia umiliazione non farsi vedere, vorrebbe dire che sono stata sconfitta, ma non è vero. Ci vediamo domani allora. ‘Notte Mary”.

“’Notte Paula”.

Mary riagganciò il ricevitore. Si mise il viso in mezzo alle ginocchia, cominciando a piangere. Non ci poteva credere: aveva perso Helen, la sua migliore amica, confidente, l’unica che la capiva veramente. “E’ tutta colpa di quelle luride streghe” gridò Mary. Era furibonda. “Non solo mi hanno derubato della mia dignità umana, ma mi hanno fatto perdere un’amica. Quanto vorrei che morissero tutte, quanto vorrei che venissero torturate nei modi più atroci ed uccise senza pietà.”

Mary avvertì una strana risata provenire dalla sua testa. Non sapeva dire che cos’era, ma non era certo sua. Forse, rifletté lei, forse sono un po’ stanca.

Si cambiò, si infilò sotto le coperte e cercò di addormentarsi, mentre quella malefica risata risuonava ancora nelle sue meningi.

VI.

Quella notte Mary fece un sogno inquietante e spaventoso. Era a scuola, immersa nell’oscurità. C’era Marla, insieme ad un ragazzo, che fumava uno spinello. Parlavano del più e del meno e, ogni tanto, la ragazza faceva cadere il discorso sullo scherzo che le aveva fatto quel pomeriggio. Il ragazzo sembrava essere divertito, così come lo era la sua compagna. Poi Marla si slacciò la camicia e i due cominciarono a pomiciare. Mary distolse lo sguardo, imbarazzata e invidiosa di tanta sicurezza e apertura verso il mondo.

Poco dopo il suo accompagnatore se ne andò, lasciandola sola. Marla lo salutò con un ultimo bacio e si incamminò, tranquilla. Nonostante fosse notte fonda, sembrava non avesse paura di tornare a casa a piedi. Mary la seguì, cercando di scoprire dove stesse andando a quell’ora. Un’ombra sbucò dal nulla, sbarrando la strada alla ragazza. Marla indietreggiò, mettendosi sulla difensiva.

“Si può sapere che cazzo vuoi stronza?” imprecò, estraendo un coltellino svizzero dalla tasca destra della giacca. “Vedi di andare fuori dalle palle, se non vuoi trovarti un bel ricamino sulla faccia!”.

Con tutta risposta, la misteriosa figura le afferrò il braccio, facendole cadere la piccola arma. Marla gemette per il dolore, cercando di liberarsi dalla stretta. “Si può sapere che cosa vuoi da me? Che ti ho fatto? Non ti conosco nemmeno!” nelle sue parole si leggeva la paura, un sentimento che Mary credeva non fosse conosciuto dall’odiata compagna di classe.

“Sai benissimo che cosa hai fatto!” rispose una voce femminile, composta, fredda. “Adesso la pagherai cara. Nessuno offende una mia discendente senza venire punita”.

“Che cosa?” domandò lei.

La figura scaraventò la ragazza a terra, cominciando a prenderla a calci nelle reni. Lei gemeva, strisciava con i gomiti per terra, ma non riusciva a fuggire. Un rivolo di sangue cominciò a colare dal suo naso, lungo il mento. “Ti prego, lasciami stare” implorò Marla, “se mi dici chi ho offeso, posso rimediare. In fondo, non sono poi così cattiva come sembro”.

Lei non l’ascoltò. Estrasse un’arma che Mary non riconobbe e la colpì. Più volte. Piccole gocce di sangue schizzarono sul muro di mattoni rossi della scuola. La colpì ancora: al viso, all’addome, alla schiena, sulle braccia. Marla urlava, chiedeva aiuto, ma nessuno la poteva sentire. La figura misteriosa la colpì ancora, tagliandole di netto la mano sinistra. Mary si accasciò per terra, terrorizzata, impietrita: che cosa stava succedendo? La stava torturando barbaramente senza motivo. La misteriosa presenza si fermò di scatto ritirando l’arma: ormai non serviva più, Marla era morta. La figura, rimanendo nell’ombra, la colpì ancora con un calcio, ridendo.

Mary si svegliò di soprassalto, il cuore le martellava nel petto, le mani le tremavano. Guardò la sveglia: erano le cinque del mattino.

“E’ stato solo un incubo” disse “Marla è una strega, ma non si merita certo un trattamento simile!”.

Si coricò di nuovo, ma non riuscì più a dormire.

VII.

Pioveva forte. Una pioggia pungente, fastidiosa, fredda. L’autobus arrivò comunque in orario, scaricando il suo carico urlante e festoso.

Appena scesa, Mary notò una piccola folla radunata vicino al muro della scuola e le auto della polizia parcheggiate davanti all’ingresso. Vide la preside parlare animatamente un poliziotto, il volto sconvolto. Paula e Sylvia le corsero incontro allarmate, scosse, stravolte.

“Che cosa è successo?” domandò incuriosita.

“Stanotte hanno ucciso Marla. Dovresti vedere com’è ridotta: ha ferite su tutto il corpo, un vero orrore”.

Mary rimase impietrita dal terrore: allora il sogno che aveva fatto… Non voleva pensarci, non poteva essere vero. Corse verso la piccola folla, sgomitando senza chiedere permesso. “Forse sto ancora sognando: adesso sentirò suonare la sveglia e sarà tutto come prima!”.

Marla giaceva supina, in un lago di sangue. Gli occhi sbarrati, privi di espressione, il volto tumefatto, il corpo dilaniato. Indossava gli stessi vestiti che aveva visto nel suo sogno, le stesse scarpe. La mano sinistra non c’era: amputata di netto. Mary cercò di trattenere i conati che la stavano invadendo, allontanandosi più in fretta che poteva.

“Non, è vero, non può essere vero” cominciò a dire. “Dio, dimmi che non è vero. No sono stata io!”.

Paula l’abbracciò, cercando di calmarla. “Ma certo che non sei stata tu, che cosa ti sei messa in testa! Sicuramente è stato qualche maniaco che ha cercato di violentarla e quando ha visto che non ci stava l’ha torturata e uccisa. Queste cose capitano all’ordine del giorno e oggi è capitato a lei”.

Mary sapeva che non era così. Qualcosa l’aveva uccisa. Un’entità misteriosa che, senza volerlo, lei aveva evocato con il suo risentimento.

“Vado un attimo in bagno, non mi sento per niente bene”.

“Vuoi che ti accompagni?” domandò Sylvia.

“No grazie, faccio da sola”

VIII.

L’acqua scorreva nel lavandino, un rumore che Mary gradiva. Si bagnò il viso e le mani, cercando di riprendersi. Ma la cosa era veramente difficile. Era sconvolta dalla paura, il suo viso era bianco come la carta, le sue labbra non smettevano di tremare.

“Signore, ma cosa sta succedendo?”

Non era più sola. C’era qualcuno con lei, una presenza che Mary non gradiva. “Ti è piaciuto il mio lavoro Mary?”.

Al suono di quella strana voce che sembrava familiare, la ragazza si girò di scatto. Si trovò davanti ad una giovane donna, all’apparenza umana. Era completamente vestita di nero, un vestito di foggia antica, i capelli corvini, gli occhi azzurro ghiaccio. La fissava sorridendo. Ma la cosa più sconcertante era che quella donna aveva il suo stesso volto. Era lei…

“Chi, o meglio, che cosa sei tu? Perché hai ucciso Marla?”.

“Me lo hai ordinato tu” rispose la figura “non ricordi?”.

“Io non ti ho ordinato un bel niente. Rispondi alla mia domanda piuttosto”.

“Diciamo che io sono una specie di antenata, o forse anche un tuo doppio” spiegò “diciamo che prima di rivivere in te ho già vissuto, in anni non certo propizi, imparando a sopravvivere grazie a certi trucchetti che poi ho messo a servizio dei miei discendenti. Erano cinquecento anni che nessuno mi invocava più, fino a ieri sera. Ti ringrazio sai? Cominciavo ad annoiarmi”.

“Non ti ho invocata”.

“Certo, in modo implicito si intende. Hai detto che avresti voluto vederle morte, torturare barbaramente e uccise, o sbaglio?”.

“Si lo ammetto, ma non stavo dicendo sul serio! Ero..ero sconvolta”.

“Sul serio o no, ora mi hai risvegliato e porterò a termine il mio compito, che tu lo voglia o no. Loro stanno preparando un altro scherzo, ma questa volta sarà l’ultimo”.

La donna sparì in una nuvola di fumo bianco lasciandosi appresso uno strano odore di morte. Era di nuovo sola in bagno. Mary cominciò a tremare convulsamente. “Mio Dio, devo fare qualche cosa!”

Con tutte le forze che aveva, corse fuori da quel posto e dalla scuola. La situazione era grave. Doveva stare lontano da quelle vipere, impedire loro di architettare altri scherzi ai suoi danni, o sarebbe stata la fine. Forse avrebbe potuto evitare l’inevitabile.

Arrivò di corsa nel cortile, dove la folla non si era ancora diradata. Adesso arrivavano curiosi anche da fuori. Le sue amiche videro il suo pallore cinereo, ma non se me curarono tanto. Dopo quello che aveva visto, era più che normale essere scioccati. Persino la Garda[1] era senza parole.

IX.

“Possiamo anche tornare a casa, oggi non c’è scuola” sospirò Sylvia.

“Ragazze, io ho paura: e se ci fosse in giro un serial killer?”.

“Non dire stupidate Paula, non c’è nessun serial killer. Marla non viveva in modo molto pulito: probabilmente avrà fatto uno sgarro alla persona sbagliata. O magari un regolamento di conti: suo padre aveva messo i bastoni tra le ruote ad un pezzo grosso della malavita organizzata”.

“Come fai a saperlo?” domandò Mary.

“L’ho letto da qualche parte!”

“Può darsi che tu abbia ragione, ma io ho paura”

Le due ragazze chiacchieravano animatamente, tranquille, ma Mary non ne aveva voglia. Odiava quelle ragazze, ma non voleva vederle morte. Loro non lo sapevano, ma erano in grave pericolo. Se solo avesse potuto avvertirle…

“Ragazze, aspettate!” era la voce di Rita, una delle tre.

Paula si girò di scatto. Le si avvicinò, la squadrò. Sembrava sul punto di volerla picchiare.“Che cazzo vuoi rompipalle?” imprecò. “Vuoi forse farci uno scherzo? Sappi che non siamo in vena oggi!”.

“No, volevo solo chiedervi scusa per ieri!”.

“Che cosa? Tu che chiedi scusa a noi?”.

“Lo so che vi sembrerà strano, ma è così. Non sono mai stata d’accordo con Marla e le altre due, ma se non facessi quello che vogliono loro…” Rita cominciò a piangere. “…Se non facessi quello che vogliono loro me la farebbero pagare. Direbbero in giro a tutti quello che faccio dopo la scuola, del mio lavoro. Appartengo a una famiglia ammirata e stimata da tutti e questo la rovinerebbe”.

“Se non sono inopportuna, che cosa fai dopo la scuola?”

“Faccio le pulizie in casa di una prostituta” fu la sua risposta. “E’ un lavoro onesto e lei è una brava persona. La mia famiglia ha bisogno di soldi e non posso lasciare quel lavoro. Se si sapesse in giro, però, sarebbe molto umiliante per me e i miei cari. La gente è ancora così bigotta nel mio quartiere”

“Ed è meglio che comincino a sentirsi umiliati, perché noi diremo tutto!”.

Loreen e Sabina se ne stavano ferme in mezzo al vialetto, con le mani sui fianchi. “Ma brava la piccola Rita, si è confessata con le amebe. E adesso farai la figura della ruffiana davanti a tutti!”.

Sabina le diede un forte schiaffo. Rita cadde a terra. Paula le si avvicinò, aiutandola a sollevarsi.

“Lasciatela in pace!”.

“Da quando i pesci lessi proteggono le ruffiane?” pronunciò Loreen. “Vedi di farti gli affari tuoi cervellona!”

E le diede uno spintone.

Sabina estrasse un coltellino, facendo indietreggiare Paula, spaventata. “Che intenzioni hai?”.

“Datemi tutti i soldi che avete in tasca oppure vi affetto, non sto scherzando!”.

“Vi conviene obbedire, capre al pascolo” le fece eco l’altra.

Un fumo biancastro cominciò a sgusciare da dietro un albero, avvicinandosi sempre di più. Le mani di Mary cominciarono a sudare, come la sua fronte. È qui, pensò, devo fare qualche cosa.

Le ragazze incalzarono.

“Allora, questi soldi? Guardate che stiamo facendo notte!”.

“Lascia stare, non ce li daranno mai di loro spontanea volontà. Prendiamoceli noi!”.

Loreen e Sabina si avvicinarono, cominciando a rovistare nelle loro tasche, nelle loro borse. “Piantatela!”.

“Vi prego” implorò Sylvia “lasciateci in pace!”

“Stai zitta cretina!”.

Sylvia cominciò a piangere disperatamente. Paula cercava di difendere il portafoglio dalle due vipere, inutilmente. Glielo strapparono di mano, con violenza, svuotandolo del suo misero contenuto di venti sterline.

“Mah, che miseria! Appena sufficiente per comprare il fumo” esclamò delusa Loreen. “Però bella la catenina che hai al collo. Credo che si possa fare un bel po’ di grana con quella”

“Lasciala stare!”

Loreen le diede un calcio nello stomaco. Paula cadde a terra, boccheggiando. Lei ne approfittò per strapparle il ninnolo dal collo.

“E adesso è mia!”

La nube minacciosa prese forma umana, lentamente. Ora era proprio molto vicina. Istintivamente, Mary afferrò saldamente il braccio di Loreen.

“Vi prego smettetela” implorò “non sapete che rischio state correndo. Lasciateci in pace, o sarà peggio per voi”.

“Da quando ti permetti di farci delle prediche Mary?” si liberò della sua morsa. “Adesso te la faccio pagare cara!”.

“No, sono io che ve la faccio pagare cara!”.

“Oh Signore!”

Un’ascia, o qualcosa di simile, fendette l’aria, colpendo la schiena di Loreen, facendo schizzare in aria il suo sangue. La ragazza si accasciò, dolorante, al suolo.

“Qualcosa…mi…ha….mi fa male! Aiuto!”.

Sabina si girò, urlò. La cosa colpì anche lei, al petto, al volto, su tutto il corpo.

Mary e le altre ragazze rimasero impietrite, terrorizzate, attonite.

“Chi diavolo è quella?”.

Il sangue cominciò a schizzare da tutte le parti, bagnandole. Rita era li, ferma e immobile, gli occhi sbarrati e terrorizzati, ad osservare la scena.

“Scappiamo” urlò Mary “andiamo a chiamare la polizia presto”.

Aiutarono Rita ad alzarsi e corsero più che potevano verso il centro cittadino.

X.

Quando la polizia arrivò sul luogo del misfatto, era ormai troppo tardi. Sabina e Loreen erano ormai morte. Fatte letteralmente a pezzi, ancora peggio di Marla. Di Sabina non si poteva più distinguere il volto mentre le viscere di Loreen erano tutte sparse per il sentiero asfaltato. Mary era li, di fronte a quel set da film dell’orrore, con lo stomaco in subbuglio e in preda a forti contati di vomito e rimorso. Non l’avevano ascoltata, ed erano morte. Era colpa sua, ma chi le avrebbe creduto?

Adesso era stata, per così dire, “vendicata”. Quella cosa aveva compiuto il suo dovere ed era sparito, ma sarebbe stata un’illusa se avesse creduto che quel dannato spirito fosse sparito per sempre. Lei giaceva nel suo subconscio, pronta ad essere liberata. Era brutto, terribile da dire, ma quel demone era lei. La sua parte oscura.

“Non ci posso credere” farfugliò Mary, nel tornare a casa. “Sono succube anche del mio cervello! Sono proprio una povera cretina, uno zerbino per il prossimo!”

Tornò a casa verso le cinque del pomeriggio, si richiuse in camera e cercò di non pensare a nulla, per evitare altri disastri. Ne aveva combinati troppi. Era di gran lunga meglio farsi maltrattare da quelle là che vivere con quel rimorso nel cuore. Una colpevole innocente, perché nessun giudice sano di mente l’avrebbe accusata d’omicidio (al massimo l’avrebbe giudicata incapace di intendere e di volere).

Il giorno seguente, tutti i giornali riportavano la notizia. Una pazza, secondo gli inquirenti. I suoi genitori avevano deciso di trasferirla altrove, in un collegio, forse lo stesso di Helen: avevano paura. Come il milione e trecentomila abitanti della città. Mary però non aveva dubbi: la “cosa” non sarebbe più ricomparsa, almeno che non l’avesse di nuovo svegliata con il suo risentimento.

Novembre 1998

See ya! ;-)





* un errore richiama un altro, fino all’abisso.

[1]polizia irlandese


Friday 29 June 2007

RACCONTI GIOVANILI


Ci ho preso gusto ormai. E visto che sembra ci sia qualcuno che li legge, allora ho deciso di "rispolverare" vecchi racconti ormai dimenticati, scritti in anni giovanili di fermento e di speranza, quando passavo le notti a pensare alla morte e ai cimiteri :-P. Divoravo storie di fantasmi di ogni genere, da quelle più autorevoli di Joseph Sheridan le Fanu, Edgar Allan Poe, Bram Stocker, Guy de Maupassant, a quelle più ridicole e stereotipate di qualche scribacchino inglese di poco conto che scriveva solo per i soldi. Erano tutte molto belle comunque. E comunque, tutti grandi autori del passato si sono cimentati almeno una volta in racconti di fantasmi. Faccio qualche nome:
- Igino Ugo Tarchetti (massimo esponente della Scapigliatura);
- Luigi Capuana (uno dei maetri del Verismo. Mai letto "Giacinta?);
- Arthur Conan Doyle
- Daniel Defoe (sembra che anche il razionalissimo e borghesissimo Defoe si sia dedicato a storie di fantasmi);
La lista può ancora continuare.
Ma sto tergiversando. Ecco il racconto.

ULTIMO PIANO

1.

Il vecchio ascensore era andato definitivamente in pensione. Ci avevano messo dieci anni, ma alla fine si erano decisi. Il nuovo montacarichi, largo, spazioso e luminoso, era pronto per l’uso. Uno strumento moderno, con aria condizionata e musica rilassante. Quanti soldi avevano speso! Ma quel palazzo era in centro, uno dei più belli della città. Un palazzo da ricchi. L’immagine era importantissima! Bella immagine, pensava sempre Katherine. Nessuno si rendeva conto del vizio e della dissolutezza di quella gente, che pretendeva di dare il buon esempio. Anche i suoi genitori vedevano in quella “gente” un esempio da seguire. E nel giro di poco tempo, da quando avevano vinto alla lotteria, si erano trasformati in perfetti elementi della “gentry” cittadina dublinese.

Katherine era diversa. Una diversità che le pesava. Ma non poteva evitare di essere com’era. Odiava tutto ciò che aveva a che fare con il denaro, con i vip, con il mondo bene. Le sue compagne di scuola la invidiavano, ma le snobbava. Preferiva rimanere sola, fino a quando non avrebbe trovato amici che l’avessero amata per quello che era. E non era facile amarla per quello che era: silenziosa, timida, e assai bruttina. Ma questo era il suo misero parere. Ma fino a quando non avesse imparato a liberarsi dei suoi problemi, ad uscire di casa, a sorridere al mondo…e quando avrebbe trovato amici!

Ritornando a casa dalla sua costosissima scuola, quel pomeriggio, trovò il vecchio ascensore fermo definitivamente. Le impalcature avevano chiuso la tromba, che si trovava nel mezzo, come in tutti i vecchi palazzi. Un grosso cartello indicava che l’ascensore era ormai fuori uso. Al suo posto il bellissimo montacarichi troneggiava alla sua sinistra, quasi volesse invitarla a salire e a godersi la sua bellezza. Katherine lo guardò. Le sue porte aperte sembravano enormi braccia. Sembravano dire “entra piccola. Scordati di quella trappola: guarda come sono grande e accogliente. Non vorrai più scendere”. Ma Katherine non si fece incantare da quell’incantatore di vipere ricche e assetate di denaro. Salì le scale, e per un attimo le parve che l’ascensore se la fosse presa a male. Ma, come la gente che lo usava, avrebbe dimenticato presto il “torto” subito.

2.

Per tutta la giornata non fece altro che pensare al vecchio ascensore. Era stupido, lo sapeva, ma quell’ascensore sembrava la “capisse”. Succedeva spesso che una persona sola si affezionasse a degli oggetti banali, finendo con l’umanizzarli. E pensare che quella vecchia gabbia metallica non aveva nulla di strano. Era arrugginito, obsoleto, rumoroso, puzzolente. Eppure a Katherine sembrava che a “lui” non importasse nulla di tutto ciò. Menefreghista nei confronti dell’immagine, aveva sempre fatto il suo dovere. Solo una volta aveva fatto i “capricci”. Si diceva avesse fatto precipitare nella tromba un ragazzo. Sicuramente un ragazzino brufoloso e viziato. Ma si era subito “pentito”. Lui era “buono”, come pensava Katherine. Aveva ripreso a lavorare benissimo.

Ma la gente non dimentica quando l’offeso è un ricco. E così avevano cominciato ad odiarlo. Solo lei non lo odiava. E quando lei saliva, lui sembrava essere “felice”. La luce interna sembrava diventare più luminosa. Katherine rise: quell’ascensore era proprio il suo unico “amico”. Li aveva imparato a non aver paura del vuoto, a non avere paura dell’ascensore. Perché i suoi genitori non le avevano insegnato niente. Erano occupati a farsi “ammirare” dalla gentaccia. E lei aveva imparato la vita da una macchina vecchia e arrugginita.

E poi quell’ascensore gli aveva fatto fare un’incontro “magico”. Il primo ragazzo che avesse mai amato. Jason. Doveva aver più o meno la sua età. Lo aveva conosciuto tre anni prima, appena arrivata nello stabile. Pioveva a dirotto e lei era tutta bagnata. Era salita di corsa sull’ascensore e si era resa conto di non essere da sola. Si stupì. L’ascensore era già ignorato da tutti. E quel ragazzo non lo aveva mai visto. Ma non si poteva scordare uno così. Alto, capelli rossi, lentiggini in viso, occhi verdi e profondi. Un sorriso spontaneo…Era stato un colpo di fulmine. Soprattutto perché non sembrava far parte di quella “gente”. Dei jeans come i suoi, strappati, non erano indumenti adatti ai “ricchi”.

Aveva cominciato a parlare con lui. In modo spontaneo, come non era mai successo. Le aveva dato il suo indirizzo. Incredibile, abitava li. All’ultimo piano. Non sapeva che l’ultimo piano fosse abitato.

Lei scese al suo piano. Lui rimase sull’ascensore. Aveva già deciso di andare a casa sua. Ma quando arrivò all’ultimo piano tutto taceva. La porta era chiusa e muta. Fu quel silenzio a dirle che li non abitava nessun Jason. E lei fu delusa come non mai. Eccone un altro che si vuole prendere gioco di me. Eh si, tanto sono stupida. E si chiuse sempre più in se stessa. Solo l’ascensore la “capiva”. Ma anche quello stava morendo.

3.

Quella notte Katherine non riusciva a dormire. Non stava ancora pensando all’ascensore! No, non era il suo “amico” di metallo il suo chiodo fisso. Non riusciva a dormire per un’altra ragione. Un motivo dai capelli rossi: Jason.

Non l’aveva mai dimenticato, anche se non era mai stato in cima ai suoi pensieri. Ma quella sera… Jason, Jason. C’era solo quel ragazzino stupido e burlone nella sua testa.

Si girò dall’altra parte. Si sentiva malissimo. Guardò l’orologio: le due. Il giorno dopo doveva alzarsi presto. Cerchiamo di dormire, disse. Chiuse gli occhi. Chissà, pensò alla fine, forse dovrei forzare una delle porte del vecchio ascensore e buttarmi giù. Chissà se qualcuno se ne accorgerebbe.

Fece un sogno strano. Le fece molto male. Se non si fosse svegliata subito, avrebbe superato il punto di non ritorno. L’ascensore era li, fermo all’ultimo piano. Ma un ragazzo scese di sotto. L’ascensore è al piano, perché non lo prendi? Ma il ragazzo continuò a scendere. Eccolo al piano inferiore. Sta forzando la porta. Ma che vuole fare? Ragazzo, sei matto? L’ascensore è sopra di te. Il ragazzo forza la porta. Si apre. La luce verde sulla destra indica che l’ascensore è al piano. È fasulla. L’ascensore non c’è. Ma che fai ragazzo? Si sporge troppo e cade di sotto. Lo ha fatto di proposito. Sette piani di caduta libera. Un tonfo sordo. Non credo il ragazzo si sia salvato. Ma non è colpa dell’ascensore se il ragazzo è caduto. È stato lui a buttarsi. Non prendetevela con l’ascensore. Lui non c’entra niente, lui…

Katherine si svegliò. Il cuore batteva forte. Che incubo! Scese dal letto e andò in cucina. Doveva bere. E fu li che sentì un cigolio familiare. L’ascensore! Il vecchio ascensore. Funzionava ancora.

Katherine non rimase li imbambolata. Si precipitò fuori dalla porta. Aveva ragione: l’ascensore funzionava. Ma come mai? Forse i ricconi, pentiti di averlo trattato male per tanti anni, avevano deciso di fargli fare un ultimo viaggio. Il suo ultimo viaggio. E lei non voleva certo perdere il posto.

Salì sull’ascensore. Questo andò su. Ma lei non aveva schiacciato alcun bottone. Forse si era sbagliata. Si fermò all’ultimo piano. Il pianerottolo era stranamente illuminato. Katherine aprì la porta e rimase di stucco. Ma quello…era quel furbone di Jason. Non sembrava cambiato, in tre anni. Sempre con i soliti pantaloni strappati. L’accolse con un sorriso.

- Eccoti di nuovo qui – disse Katherine – dopo tre anni-

- Dovevo venire, oggi è l’anniversario-

- L’anniversario? -

- Certo! Oggi sono esattamente vent’anni che lui si è buttato giù-

- Lui chi?-

- Il ragazzo – rispose Jason.

E le raccontò la storia, che Katherine conosceva appena. Un ragazzo era depresso, vent’anni prima. I suoi genitori non lo consideravano. Bastava andasse bene a scuola, il resto non contava. Un giorno era più depresso del solito. E prese l’insana decisione. Forzò la porta del settimo piano, ma l’ascensore era all’ottavo. L’ultimo piano, appunto. Chiuse gli occhi e si buttò di sotto. Ma nessuno credette al suicidio. Nessuno voleva credere che un “bravo ragazzo” come lui potesse suicidarsi. E per comodità diedero la colpa all’ascensore.

Katherine ricordò il suo brutto sogno. Ma no, solo una coincidenza. Il ragazzo la guardò. Il suo cuore saltò nel petto. – Non fare quell’errore – le disse. – Lo so che lo hai pensato. Ti prego, non lo fare. L’ascensore è solo un oggetto, questo è vero. Ma può farti fare incontri interessanti. Incontri che possono cambiare la vita. Lui non ebbe pazienza di aspettare. Ti prego Katherine, non fare cose simili. Non fare come me! –

Adesso si sentiva strana. Jason, ma che cosa…sembrava si stesse dissolvendo.

Le toccò una mano. Era gelida. Le diede un bacio. Le labbra erano fredde. Poi le girò la testa, le mancò il respiro.

Riaprì gli occhi che era giorno. L’ascensore non c’era. Era al primo piano. Bloccato. Come il giorno prima.

Si sentiva triste e sola. Le veniva da piangere. Non lo fece. Tornò in casa e si vestì. I suoi genitori non si erano nemmeno accorti della sua assenza. Katherine si sentì ancora più male.

Il montacarichi nuovo era davanti a lei. La invitava ancora. Non si era dato per vinto. E va bene, disse Katherine, ti voglio soddisfare. Forse anche lui avrebbe potuto essere suo “amico”. E si ricordò delle parole di Jason, il “suicida” di vent’anni prima. Avrebbe potuto fare degli importanti incontri…

L’ascensore si fermò al terzo piano. Fermata prenotata. Le porte si aprirono ed entrò un bel ragazzo biondo. Indossava la stessa sua divisa scolastica.

Il ragazzo la guardò curioso. - Frequenti la mia scuola? – domandò.

- Fin dal primo anno -

- Per me è il primo giorno. È una bella scuola?-

- Se sei snob, si-

- Allora non mi troverò bene: odio gli snob. Ma i miei sono appena diventati ricchi: una grossa eredità! E si gasano come matti!-

Katherine sorrise: non era la sola a pensarla così. Si sentì leggermente meglio. In ascensore si potevano fare incontri interessanti…

- Visto che dovremmo frequentare la stessa scuola, tanto vale presentarci! Io sono Katherine-

Il ragazzo le porse la mano e gliela strinse: - Molto piacere! Io sono Lucas!-

Febbraio 1998

See ya! :-S

Thursday 28 June 2007

E SI RICOMINCIA!

Estate. Tempo di mare, di sole, di bagni nell'acqua cristallina (non sempre!) del mare. Si preparano le vacanze, le valigie, poi tutti in macchina, in treno o in aereo e via, verso il divertimento! Ma...c'è un mah! Anzi un problemone leonardesco da risolvere: dove mettere il regalo di Natale?
Ma andiamo con ordine. Ogni anno molti animali, cuccioli, vengono acquistati per fare felici i bambini. I bambini, come ben si sa, ci giocano un poco poi si stufano e li gettano via, come i peluches sporchi. Specialmente se questi birbanti sono viziati fino al buco del deretano da genitori poco in grado di essere tali. Poi arriva l'estate, e i genitori, che spesso e volentieri sono più infantili della loro prole, non sanno che fare di quel bel regalo. Allora arriva la soluzione più semplice ed "economica": l'abbandono.
Ogni anni migliaia di cani vengono abbandonati, spesso in autostrada. Molti di questi muoiono perchè investiti dalle macchine e a volte sono causa di morte per gli automobilisti, che per evitare di spetasciarli vanno a spetasciarsi loro stessi!
Non parlando delle solite torture a cui spesso gli animali sono sottoposti, limitiamoci a questo problema. Nonostante la legge che prevede anche il carcere per tortura e abbandono di animale, sembra che questo non sia un problema per le bestie che abbandonano i cani. Ogni anno in canile ce ne sono tantissimi. E a volte se non si trova un padrone si ricorre all'estremo sacrificio: la soppressione.
Mony 76 aveva già proposto il problema, io metto a nudo il fatto. Una vergogna. L'ennesima prova dell'estrema stupidità umana.
Tutti parlano delle donne, di quanto sono vittime, di quanto poverine siano destinate allo stupro da parte del maschio cattivo. Ma non si parla mai delle vere vittime: i bambini e gli animali. Vittime innocenti che non sono assolutamente in grado di difendersi. Mai si parla di loro. O solo in rari casi, quando si è convinti che farà veramente venire i lacrimoni agli occhi alle "brave persone" di chiesa.
Un reset qui è inutile. Un'indignazione è giusta: basta!
See ya! >:-@

Wednesday 27 June 2007

RITORNO AL FUTURO: UN RACCONTO DAL PASSATO


Premetto che questo racconto è piuttosto vecchio, e risale quindi agli "anni giovanili": infatti è stato scritto circa quattro o cinque anni fa. Si intitola "D-day" e come si è capito anche dalla foto ha come tema lo sbarco in Normandia. E' un racconto diverso dagli altri pubblicati qui, più ingenuo e anche più vicino al genere "ghost story", come ci si potrà accorgere leggendolo (per chi vorrà leggerlo).
Inutile negare che ultimamente questo blog sta diventando forse troppo personale, ma presto ricomincerò a commentare le notizie lette sui giornali o in giro per la rete...


I.

6 giugno 1944, ore 2:30, 12 miglia a largo della costa di Omaha beach

Faceva piuttosto freddo, nonostante fosse giugno. Ma non c’era da stupirsi, a quella latitudine. Il cielo era cupo, nero, privo di stelle e luna. Feci quattro passi sul ponte, mentre i miei compagni bevevano e dormivano nelle cuccette sottocoperta. Sarebbe stata una giornata pesante, quella che ci si profilava davanti. Nessuno era preparato a dovere, tantomeno io. Ma nessuno, credo, pensava che cosa ci aspettava. Nessuno poteva immaginare lo scempio e l’orrore che ci saremmo trovati davanti agli occhi. Nessuno poteva prevedere un simile disastro.

Martin, il mio migliore amico, venne sul ponte. Barcollava e cantava a squarciagola. Mi vide affacciato al parapetto della nave e mi venne incontro. Mi diede una pacca sulla spalla, sorridendomi. – Belle coste, vero? –

– Come fai a vederle? –

– Me le immagino. Chissà cosa stanno facendo quei bastardi dei tedeschi –.

Bevve un sorso di rum. Mi porse la bottiglia ma io rifiutai. Non avevo voglia di bere. Il suo viso si fece serio. – Eh si, credo che dovremo dare un bacio d’addio alle nostre chiappe. Sempre che io riesca a raggiungere le mie –.

Rise, io non ci riuscii. Mi diede un’altra pacca sulla spalla e rientrò sottocoperta, cantando a squarciagola l’inno americano. Molti si lamentarono di ciò, ma lui non tacque. Era felice, ma anche molto ubriaco. L’alcool gli aveva alterato il cervello. Non pensava più a niente. Forse era meglio così.

Mi voltai. L’Irlanda non era lontana. Poche miglia. Io venivo da li. Eh si, il contadino irlandese che va a cercare fortuna negli Stati Uniti. E invece avevo trovato la disgrazia. Ma quando ero partito non lo potevo prevedere. Ero un ragazzo di sedici anni, con la testa piena di sogni e la speranza di poter guadagnare qualche cosa. Insomma, partito con un fagotto rattoppato pieno di stracci per tornare con una bella valigia di pelle piena di bei vestiti e un bel fascio di verdoni!

Ero il primo di dieci fratelli. All’epoca noi ci riproducevamo come conigli. Più figli, più braccia da lavoro, più soldi. Ma di soldi se ne vedevano ben pochi. Mio padre si era spaccato al schiena per coltivare una terra arida. Ed aveva ricevuto in cambio solo un pugno di mosche. Era morto di fatica, a soli cinquant’anni. E mia madre, da sola, non riusciva a fare niente. Io, ancora bambino, feci un’infinità di lavori. Bracciante agricolo, calzolaio (anche se pochi portavano le scarpe), garzone a giornata. Ma i soldi, quelli veri, non sapevo nemmeno che forma avessero. Quante volte piansi fino ad addormentarmi, mentre vedevo mia madre consumarsi lentamente e i miei fratelli magri come chiodi. E allora andai, lontano. Trovai un buon lavoro. Ero sfruttato ma felice. Ma volevo di più. E mi arruolai nell’esercito. Una buona paga. Ero felice. Almeno prima di essere spedito qui. Prima di partire mandai una lettera a mia madre dicendo che sarei tornato presto. Ormai eravamo agli sgoccioli, come tutti dicevano. In quel momento ero sempre meno sicuro di rivederla.

II.

6 giugno 1944, ore 6:00, poche miglia da Omaha beach

La spiaggia davanti a me. Una massa informe. Presi il binocolo e guardai meglio. Qualcosa in più potevo vedere. Le trincee nemiche. I tedeschi erano la, da qualche parte. Pronti a sparare. Tutti eravamo sul ponte. Alcuni tremavano, ma evitavano di farlo vedere. Martin era accanto a me, con il viso tirato in una smorfia di apprensione. Ed io, ero forse più tranquillo? Avevo paura che gli altri potessero sentire il rumore del mio cuore, da quanto batteva. E non ero sicuro di poter tenere le mani ferme. Quando avrei voluto tornare indietro, far finta di niente. Ma non potevo tornare indietro. Ormai ero li, e ci dovevo rimanere. Avrei dovuto non arruolarmi. Ma volevo di più. Ero uno stupido venale. Mi avevano abituato così. Non era una giustificazione.

Martin bevve un sorso di succo d’arancia mischiato a del rum di pessima qualità. Lo bevvi anch’io: era una cosa disgustosa. Lo sputai, pulendomi la bocca con la manica della mia giacca.

– Sai cosa ti dico Paddy– iniziò – se sopravvivo a questa avventura, giuro che non farò più il cretino a Sand Beach. L’ultima volta ho rischiato l’arresto –

– Ma lo farai da qualche altra parte – dissi io.

– Lo sai che sono un cattivo ragazzo, vero? –. Era ancora leggermente ubriaco, ma quella frase la pronunciò con un velo di tristezza. Non l’avevo mai visto triste, dal primo giorno in cui l’avevo conosciuto. E non era triste nemmeno sul fronte asiatico, a combattere contro giapponesi. Poi l’avevano mandato qui. Ma sarebbe stato più al sicuro a Sumatra o su Omaha beach? Forse è assurdo, ma credo lui sentisse quello che gli sarebbe successo. E forse anche lui stava pensando all’errore che aveva fatto. E sapeva che non poteva porvi rimedio.

Abbassai la testa, guardando il mio fucile. Mi ricordai delle cavolate che facevamo in spiaggia, d’estate. Io che cantavo fino a farmi venire il mal di gola e lui che correva nudo sulla spiaggia, scandalizzando giovani ragazze appena uscite dal collegio e vecchie avvizzite troppo moraliste. Rischiammo più volte di essere arrestati. Ma levavamo le tende prima. E quella volta che aveva fatto uno scherzo al nostro comandante? Se l’era vista proprio brutta. Ma il vecchio Condor, come lo avevamo chiamato, aveva un cuore di burro. E si limitò a fargli pulire la caserma da cima a fondo. Con uno spazzolino! Sospirai. Speravo di poter ritornare così, di fare ancora il cretino con Martin, di ritrovare la mia adolescenza perduta. Non sarebbe successo più niente di tutto ciò.

Ci avvicinammo sempre più. L’H-hour era vicina. Il mare era mosso. Mi venne la nausea. Poi mi venne il mal di stomaco. Non ero abituato a navigare con un mare simile. Le onde erano alte, scure, minacciose. Sembrava volessero annegarci, inabissarci, nascondersi all’orrore della guerra. Nel giro di poco, avvertii dei forti conati di vomito. Vomitai, sul lato sinistro dell’imbarcazione. Non vedevo l’ora di arrivare a riva. Non mi interessava niente dei tedeschi, delle loro schifose armi, della morte. Tutto, ma non quel supplizio. Martin rise, e continuò a bere. Finita la sua bevanda disgustosa, gettò la bottiglia in mare. Adesso sembrava aver ritrovato una certa stabilità. E sembrava ritornato il vecchio Martin di prima. Ma anche lui, in fondo, aveva un’autoconsapevolezza. E credo si rendesse conto che non sarebbe stato come fare una passeggiata sulla nostra solita spiaggia. Martin, si, in fondo era una persona molto intelligente, anche se dimostrava il contrario. Mi piaceva come amico.

La spiaggia era sempre più vicina. Il nostro comandante stava cominciando a darci degli ordini. Martin fece un rumoroso rutto e disse: “Buona fortuna amico.” E baciò il suo crocifisso. Non lo aveva mai fatto.

III.

6 giugno 1944, ore 6:30: H-hour ad Omaha beach, inizio missione compagnia A

Adesso la spiaggia era a pochi passi da noi. Non era bella come me l’ero immaginata. Era grigia e sporca, piena di sassi e scogli appuntiti. Nessuno ebbe il tempo di rammaricarsene. Qualcosa ci piovve addosso, alzando ancora di più le onde: colpi di mortaio. Ci furono i primi morti. Il loro sangue schizzava sui bordi della nave.

– Oh Cristo! – urlò Martin.

Mi strinse la mano. Lo guardai, poi abbassai lo sguardo. C’era una pozzanghera giallognola ai suoi piedi: se l’era fatta sotto. Ma non era l’unico. Anch’io ero terrorizzato. Vidi un soldato accanto a me urlare. Non avrebbe dovuto farlo. Un proiettile gli fece saltare la testa. Martin urlò e vomitò.

– Giù la testa! – urlò il nostro comandante. Tutti obbedirono. Nessuno voleva fare la fine di quel poveraccio. Molti, quasi tutti, credevano di poterla evitare.

La tattica si rivelò utile solo all’inizio. Il fuoco pioveva da tutte le parti. Sembrava un uragano di piombo. Alzai la testa, per vedere che cosa stesse succedendo. Vedevo solo l’acqua incresparsi ed alzarsi, le granate caderci addosso. Non sapevo quanti erano stati colpiti, ne quanti erano già morti. Non volevo saperlo. Non me la sentivo.

Venne abbassata la rampa. Dovevamo scendere. Io ero il quinto. Martin era dietro di me. Dovevamo liberare il terreno per gli altri che stavano dietro di noi. Mentre mi stavo preparando per scendere, vidi un corpo galleggiare in acqua. Era uno degli addetti ai carri armati. Era annegato. Il mezzo era affondato. Come molti altri. Feci il segno della croce: la vedevo proprio brutta.

Fu il mio turno per scendere. Esitai un attimo, creando ingorgo. Forse fu un bene. Martin venne sfiorato da un proiettile, che si conficcò nel ferro della nave. Gli avevo salvato la vita, anche se di poco. Dietro di me molti cominciarono ad imprecare, allora mi decisi a saltare.

Toccai l’acqua con estrema violenza. Ebbi l’impressione di essere immerso in una vasca di ghiaccio e piombo. Il mio equipaggiamento era già pesantissimo. L’acqua lo aveva inzuppato e lo aveva reso ancora più pesante Mi mossi lentamente, faticosamente. Mi sentivo come Gesù con la croce in spalla. Solo che per me era un fucile. E il Golgota aveva assunto le sembianze di una spiaggia francese grigia e piena di fucili spianati pronti a colpirmi.

Qualcosa mi colpii e finii sott’acqua. Mi sembrò di annegare. Risalì a fatica, boccheggiando e sputando acqua salata. La gola e le narici mi bruciavano. Accanto a me, un cadavere. Era stato quello che mi aveva colpito. Mi aveva salvato la vita. Non sapevo chi era, ma lo ringraziai.

Avanzai nell’acqua fredda. Da grigia e livida si era fatta rossa di sangue. I cadaveri erano ovunque: sulla spiaggia, in acqua. Galleggiavano come tanti salvagente, con il loro sangue che faceva da contorno al loro involucro ormai vuoto. Erano tutti giovani quelli. Poco più grandi di me. Magari anche qualche coetaneo Tutti con la testa piena di speranze, che adesso non avevano più. Molti di loro avrebbero ricevuto una medaglia per il loro “eroismo” in guerra. Ma a che serviva una medaglia per chi nel petto aveva solo piombo? E alla fine quei ragazzi erano veramente degli eroi? No, ecco quello che pensavo. Erano solo ragazzi, con la testa piena di sogni, con la voglia di vivere in un mondo migliore. Ma quel mondo non lo avrebbero mai visto, perché loro erano morti all’inferno, e il loro paradiso era lontano. Perché la guerra gli aveva tolto tutto, e avrebbe tolto tutto a molte altre persone. La sua smania di carne umana era insaziabile.

Mi voltai. Dov’era Martin? Era dietro di me, poco prima. Lo sentivo pregare, piangere, imprecare. E adesso… Dovevo cercarlo. Non ce l’avrei fatta ad andare avanti senza di lui. Per fortuna tra i cadaveri non c’era. Lo vidi poco più avanti, arrancare nell’acqua rossa e mossa. Si forzava di arrivare alla spiaggia dove i cadaveri giacevano immobili, immersi nel loro sangue. Tutto, attorno a me, si era tinto di rosso. Martin urlava, chiedeva aiuto, annaspava, ansimava. Cercai di avvicinarmi a lui, ma altre raffiche di fuoco mi sfiorarono. Mi abbassai nell’acqua, cercando di avvicinarmi. Forse avrei potuto aiutarlo. Avevo visto un posto riparato, dove i proiettili non piovevano.

– Martin, avvicinati – urlai – Martin, cazzo, vuoi avvicinarti? – Non mi sentiva: le sue urla inarticolate coprivano la mia flebile voce. – Martin, cristo, sei sotto il tiro nemico –

Martin andò sott’acqua. Lo vidi emergere poco dopo, con la testa sanguinante. Era stato colpito, forse di striscio. Corsi più che potevo, con movimenti goffi. Inciampai in un sasso e caddi a terra: avevo raggiunto la riva. Strisciai bocconi tra i cadaveri, lentamente. La sabbia mi sporcava i vestiti e l’attrezzatura, ma non me ne curai. La sabbia si poteva lavare via, una vita umana persa non la si poteva più recuperare.

Non potevo rimanere a lungo in quella posizione. Sarei stato sicuramente colpito. Dovevo fare qualche cosa. Afferrai il mio fucile e cercai di sparare. Ne venne fuori un suono sordo. Si era inceppato. Era pieno d’acqua e sabbia bagnata. Strisciando, cercai un angolo meno pericoloso dove fermarmi per pulire la mia sola salvezza.

Un angolo di spiaggia tranquillo. Un piccolo miracolo all’inferno. I tedeschi non avevano la visuale in quell’ansa seminascosta da grosse pietre. Strisciai sulla spiaggia e raggiunsi il posto. Mi misi a sedere e mi liberai dell’attrezzatura. Mi sentii più leggero, quasi nudo, tremande, a pulire il mio fucile. Lo feci con rapidità, cercando di evitare di guardare quello che stava succedendo attorno a me. Ma non potevo evitare tutto. Come non evitai la vista di un giovane soldato inglese, che raccoglieva il suo braccio. O come quel soldato di colore che mi trovai di fianco, con la bocca sanguinante e schiumosa. Alzò la testa, come per dirmi qualche cosa, ma non fece in tempo. La pallottola che lo perforò fu più veloce di lui. E il suo sangue schizzò sulla mia faccia.

Adesso il fucile era pulito. Dovevo solo provarlo. Bastava ricominciare la “festa”. Ricominciai a strisciare come un verme, a scansare i cadaveri evitando che la loro vista mi facesse stare male. Un proiettile colpì la sabbia e l’alzò, mandandomela negli occhi. Li ripulii come potevo, ma non feci altro che peggiorare la situazione. Avanzai alla cieca, mentre gli occhi mi lacrimavano. Fu un bene, perché la sabbia uscì, permettendomi di vedere dove stavo andando.

Strisciai nella sabbia, fredda come il ghiaccio. Il mio fucile nella mano sinistra. Non capivo più niente. Avrei dovuto alzarmi, sparare, ma non ne ce la facevo. Continuai quindi a strisciare, accanto a me solo cadaveri. Ormai pensavo di essere l’unico vivo. Ma per quanto lo sarei stato ancora? Quell’agonia era tremenda.

Avevo la certezza di non farcela. Tutte le speranze del mondo non avrebbero potuto farmi uscire vivo da quell’inferno. La mia vita mi passò davanti tutta, velocemente, come in un film. Partì dalla mia infanzia per finire con il viso allegro di Martin. Martin, lui, l’unico che mi aveva fatto capire che la vita andava presa alla leggera, qualche volta. Ma non c’era niente di spensierato in quell’occasione. Solo il pesante coperchio della morte, che mi soffocava, mi opprimeva. Solo la certezza che tutto sarebbe finito, prima di sera. Non c’era più niente da fare. Nemmeno il pensiero di mia madre e dei miei fratelli mi scosse da quel torpore mortale in cui ero piombato. Avevo la sensazione di non provare più nulla, ne rimpianto, ne dolore, ne gioia. Ero un vegetale, un morto.

Ci fu una pausa. Non sparavano più. In un impeto di rabbia, follia, paura, non lo so, mi alzai in ginocchio e sparai. Sparai all’impazzata, urlando, imprecando, contro il mondo, contro i tedeschi, contro me stesso. Una pallottola mi colpì, un colpo sordo, ma non sentivo niente. Sparavo e sparavo, urlando. Colpii una testa che si era incautamente alzata dalle trincee. Sparii in un attimo. Poi caddi a terra, stremato, ansante. Avevo dato sfogo all’ultimo barlume umano.

Qualcosa mi toccò debolmente il braccio. Era Martin. Era pallido come un morto e la sua ferita continuava a sanguinare. No, non era stato un colpo di striscio.

– Martin, come stai? – domandai.

Cercò di dire qualche cosa, ma la voce non gli uscì. Mi fissava, con quegli occhi quasi vitrei. Lo abbracciai. Lui venne scosso da un forte fremito, poi rimase immobile. La sua mano destra cadde mollemente nella sabbia. Il suo corpo si fece più pensante. Ne avevo la certezza: non l’avrei più rivisto ridere. Non avrei più sentito la sua voce.

– Martin… – sussurrai. E basta. Le parole che avevo in bocca erano troppo dure per poter essere pronunciate. Era meglio stare zitti.

Lo feci cadere a terra. Le mie mani erano diventate pesanti. Mi sentivo malissimo. Come se il mio cuore volesse esplodermi nel petto. Il mio cervello si era fermato. Neanche il rumore delle mitragliatrici sembrava darmi più fastidio. Rimasi in ginocchio davanti la corpo di Martin. Potevano anche colpirmi, se volevano. Anzi, colpitemi. Portatemi via da questo inferno. Portatemi via dal sangue, dalla morte. Portatemi via dalla guerra, questa dannata. Da quanto gli uomini avevano cominciato a combattere, questa aveva solo portato morte. Guerra e Morte, le perfide sorelle. E sarebbero andate avanti ancora per molto, a braccetto, nutrendosi di carne umana e di sangue, di dolore e di violenza, di disperazione e di solitudine. La guerra portava solo del male. E, per me, non esistevano ne vincitori ne vinti: solo le Sorelle vincevano, e gli uomini soccombevano.

Mi resi conto, però, che ero ancora vivo. Si sparava ancora. Altre compagnie di soldati scesero a terra e vennero freddate. Uno ad uno, come mosche, cadevano, per non rialzarsi più. Dunque ero ancora vivo. Se mi fossi lasciato andare, Martin non me lo avrebbe perdonato. Ripresi in mano il fucile e continuai. Anche per te, pensai. Sparai, mi alzai, mi abbassai, mi nascosi tra i cadaveri. Tutti i miei gesti erano diventati automatici. Visto che non avrei vissuto più come prima, l’unica cosa che potevo fare era riuscire ad uscire vivo da li.

La salvezza mi si presentò sotto forma di rifugio. Un pertugio nella roccia, una caverna. Era spigoloso, stretto, ma abbastanza largo per poterci passare attraverso. Mi svegliai dal mio torpore mortale e strisciai a ridosso dei cadaveri. I tedeschi gli sparavano addosso, credendoli vivi. Ebbi salva la pelle. In pochi minuti arrivai a destinazione. Mi buttai dentro. Era più ampia di quanto pensassi. E buia, fredda, profonda. Fuori, il fuoco continuava a piovere. Chiusi gli occhi per non vedere quello strazio. Ritrovai la mia umanità e piansi. Ormai la mia vita era rovinata. Non ci sarebbe stato ritorno.

IV.

Aprii gli occhi. Avevo dormito un sonno pesante e senza sogni, quasi mortale. Mettendomi a sedere, tesi l’orecchio. Silenzio. Mi affacciai alla feritoia. Notte. Nessuna nave in avvicinamento, nessun tedesco, nessun rumore. Mi alzai in piedi ed uscii, con il fucile puntato. Non c’era più niente. Anche i cadaveri sembravano scomparsi. Davanti a me, una notte senza luna, come la precedente. Sembrava che tutto fosse piombato in una calma irreale. Solo l’odore del sangue, forte e penetrante, mi fece ricordare ciò che era successo. E il mio braccio, che mi faceva un male del diavolo. Forse avrei dovuto prendere il coltello che avevo nella tasca dei pantaloni ed estrarmi la pallottola, ma non ebbi il coraggio. In preda alla nausea, alla paura e al freddo, rientrai nella caverna e ritornai a sedere. Appoggiai la schiena contro la nuda roccia e cercai di pensare. Dovevo rimanere lucido.

Mi accorsi di non essere solo. Dei passi rimbombavano in quel vuoto. Nel giro di poco furono dietro di me. Forse un mio commilitone. Cambiai idea quando sentii la gelida canna di una pistola contro il mio collo. Alzai le mani.

Wie heißt du?[1] disse una voce profonda e giovanile.

Un tedesco: ero fregato. Il mio fucile era rimasto senza pallottole e non avevo altre armi. Non potevo difendermi. Lui mi avrebbe sicuramente ucciso.

Wie heißt du? – ripeté, con maggior enfasi.

– Non ti capisco– dissi io.

– Americano? – domandò, con forte accento tedesco.

– No, irlandese –

Lui rise. – E che cosa fai qui? –

– Potrei porti la stessa domanda –

Allontanò la pistola dal mio collo. Tirai un respiro di sollievo. Evidentemente non aveva intenzione di uccidermi, ma solo di farmi suo prigioniero. Ma era meglio essere morti o finire in un campo di lavoro tedesco?

Mi voltai. Mi trovai di fronte ad un ragazzo biondo, giovane, alto, con la carnagione chiara tipica dei tedeschi. Aveva la divisa sporca, gli stivali infangati, i pantaloni laceri.

– Che cosa ti è successo? – gli domandai.

Lui mi rispose con un’altra domanda, sempre nel suo inglese stentato. ­– Allora, dimmi come ti chiami –

– Patrick O’Brien –

– Quanti anni? –

– Diciotto –

– Giovane –

– E tu quanti ne hai? –

– Ventidue –

– Anche tu sei giovane –

Rise e mi guardò. – Patrick O’Brien irlandese – ripeté. Si accese una sigaretta. ­ – Irlanda neutrale. Perché tu qui? –

– Per errore ­

­– Ah! –. Mi tese il pacchetto di sigarette. – Sigaretta? – Lo guardai stranito. Rise ancora. –Niente veleno–

Ne presi una, l’accesi e fumai. Non fui mai così felice di farlo. Il fumo mi andava giù in gola, rapido, tossico. Tossii parecchie volte, mi venne la nausea, ma continuai ad aspirare alacremente.

– Tu come ti chiami invece? –

– Fritz von Müller – rispose il ragazzo. – 352° divisione fanteria esercito del Reich. Voi avete combattuto contro noi oggi. Tanti morti, ho visto –

– Grandissimi bastardi –

– Forse, ma voi avete fatto errori. Poi vinto. Esercito tedesco arretrato –

– E tu come lo sai? –

– Visto tutto –

– E allora che cosa ci fai qui? Potrei prenderti come prigioniero –

Fritz spense la sua sigaretta. – Non lo farai –

– Sei un disertore? –

Il ragazzo annuì. – Odio la guerra e odio il Führer. O mein führer, per precisione –. Fece il saluto nazista, ridendo. – Hitler sereno, la guerra è nostra. Forse vuole evitare che gente si spaventi. Ma ormai mezza Germania rasa al suolo, migliaia di morti, tanti sfollati: chi vuole prendere in giro? Guerra per Germania persa, Kaputt!

– Non credo lui sia d’accordo. Se ti sentisse…–

– Andrei in der lager, come mio fratello –

– Tuo fratello è prigioniero in un lager? –

Ja, da due anni ormai –

Mi fece cenno di alzarmi. Accese una torcia e mi condusse poco più lontano. C’era una camera un po’ più ampia. Ci sedemmo sul pavimento freddo e umido. C’era una forte puzza di muffa. Lui mi porse una scatoletta di carne e una bottiglia di Vermut. – Mangia, devi riprendere forze –

– Perché fai tutto questo per me? Io sono tuo nemico –

Tu nemico? Non credo. Guerra mia nemica, non tu. Forza mangia –

– Non ho fame–

– Tu sconvolto e posso capire, ma devi mangiare – . Mi guardò il braccio destro. – No, forse prima togliamo la pallottola –

Fritz estrasse il suo coltello, mi strappò la manica della camicia e lo conficcò nella mia pelle. Il dolore era tremendo. Mi morsi violentemente il labbro inferiore, per non urlare. Vedevo il sangue che sgorgava a fiotti. E quella lama penetrare nella mia pelle. Mi sentivo male.

– Eccola qui, molto grossa – disse Fritz. Poi mi disinfettò e bendò il braccio. Il dolore andò man mano scemando.

– Quando arrivi al campo da tuoi amici, fatti medicare bene. Io non ho niente per disinfezione. Fa infezione già –

Mi porse di nuovo il cibo. Mi accorsi di avere fame e mangiai. Divorai tutta la razione, che sembrò la più buona che avessi mai mangiato. Fritz era seduto di fronte a me. Lui non mangiava. Mi porse il Vermut e lo trangugiai come se fosse acqua fresca. Lo sentii bruciare nel mio stomaco. Ero felice di sentirlo bruciare, ero felice di sentire la mia testa leggera come un pallone sospinto dal vento, ero felice di essere euforico.

V.

Faceva freddo. Il vento soffiava tra le feritoie della grotta, provocando rumori assurdi e irreali. Sembravano latrati di cani, urla strazianti, rombi di tuoni, grida confuse. Tremavo come una foglia. Mi sentivo bruciare: mi era venuta la febbre. La situazione stava peggiorando.

Fritz era li, accanto a me, con gli occhi fissi verso il vuoto. Iniziò a parlarmi, con quel suo inglese fortemente germanizzato e poco corretto. Era nato a Norimberga, ma viveva a Weimar. Era una bella cittadina, prima della guerra. Poi avevano cominciato a bombardarla, e aveva perso il suo colore. Mi parlò rapidamente della sua vita, inserendo particolari insignificanti come la sua scuola, la sua adolescenza, i suoi amori. Suo padre era anche stato nell’esercito e aveva combattuto contro i francesi sul fronte occidentale durante la Grande guerra. Suo fratello era laureato, aveva studiato a Londra e poi era entrato in politica, nella Zetrum[2]. Lui non aveva studiato. Erano poveri, come quasi tutti i tedeschi. Suo padre faceva fatica a trovare un lavoro. Era un mutilato. Poi era arrivato Hitler, ed aveva promesso ricchezza per tutti. La situazione era migliorata, per peggiorare subito dopo. Si sentivano dei perseguitati. Non avevano più libertà. Tu non puoi capire, mi diceva, che cosa sia una dittatura. È una piaga, una rovina. Perse molti amici, solo perché erano ebrei. Ma lui contro gli ebrei non aveva proprio niente. Ma se non voleva morire, doveva dire di odiare gli ebrei. Poi nel 1937 anche suo fratello fu portato via. Era passato al partito nazista, ma faceva parte di un gruppo di intellettuali antinazisti. Qualcuno aveva fatto la spia. Una donna, che Franz amava. Ma lei non amava lui. La Gestapo era entrata in casa sua, aveva malmenato suo padre e si era portato via suo fratello. Il vecchio padre era morto. Franz fu portato a Buchenwald, da dove inviava sue notizie. Diceva che stava bene, anche se il lavoro era duro. Era tedesco, poteva ricevere cibo, vestiti, soldi. Fritz si era arruolato per mandare un po’ di soldi a casa. E nella speranza di poter far liberare suo fratello. Ma dal maggio 1944 non sapeva più nulla di lui. La cosa lo angosciava.

– I lager non sono semplici campi di lavoro– denunciò – li c’è morte. Noi sappiamo, ma zitti. Meglio avere paura ma vivi, che prigionieri e morti. Da li torni solo se hai amici. E per fare amici devi uccidere, schiavizzare, fare Kapo: perdere umanità –

– Ho sentito anch’io certe cose– iniziai a fatica. La voce sembrava non volermi uscire dalla gola. – Le notizie,però, sono molto confuse –

– Li mio fratello, Patrick. Promettimi che se arriverai a Buchenwald aiuterai Franz. Sento lui ancora vivo. Almeno lui –

– Cosa vuoi dire? –

Notai che Fritz aveva il viso bagnato. Piangeva. – Ti prego, libera mio fratello. Li si pratica vernichtung[3]

– Cosa? Non ti capisco –

Vernichtung, Vernichtung ripeté con foga. - Non so inglese per questa parola. Juden, Vernichtung“

Juden, ebrei, ma vernichtung che significa? Ti prego spiegati –

Bitte, mein freund, bitte disse soltanto.

Iniziò a farfugliare qualche cosa in tedesco. Non capivo cosa diceva, ma capivo che era distrutto. Non sapevo che cosa volesse dire quella dannata parola. Sapevo che non doveva essere una bella cosa. Per la prima volta, non odiai un tedesco. Mi avevano insegnato ad odiare i tedeschi. Lui non lo odiavo, non potevo odiarlo. Anche lui era un vittima della guerra. Anche i tedeschi erano vittime della guerra. Anche loro soffrivano, come noi. Tutti erano vittime della guerra. Tutti gli innocenti. Perché eravamo tutti innocenti.

Continuò a farfugliare parole incomprensibili per altri dieci, venti minuti. Io stavo sempre più male. Ansimavo, sudavo, tremavo. E lui…aveva cominciato a farsi sottile, evanescente. Vedevo la parete rocciosa attraverso la sua figura. La sua voce sembrava lontana. Mi spaventai. Ma cosa sei, avrei voluto dire. La voce se ne era andata. E non avevo la forza di aprire la bocca. Ormai era diventato aria. Sparì sotto i miei occhi, lasciando una nuvoletta gelida che mi attanagliò le membra. Uno…taibhse[4]: fantasma. No, ero io che ero diventato un fantasma. Perché forse ero morto. Vedevo luci strane davanti ai miei occhi. Forse stavo andando nel regno di morti. Chiusi gli occhi, ed ebbi la sensazione di volare. Adesso ero andato. Ero finalmente morto.

VI.

7 giugno 1944, ore 7:00

Mi svegliai di soprassalto. Freddo. Era un mattino senza sole, grigio, spento. Mi alzai. Facevo fatica a stare in piedi. Il braccio mi faceva ancora molto male. La benda con la quale era stato bendato era sporca di sangue e di una sostanza giallognola: era pus. La mia ferita si era infettata. Tutto il mio corpo era scosso da tremori fortissimi. I miei occhi facevano fatica a mettere a fuoco gli oggetti. Dovevo avere la febbre alta.

Mi incamminai con lentezza incredibile lungo la spiaggia. Le gambe facevano fatica a reggermi in piedi. Lo stomaco mi si contraeva furiosamente per la fame, come se fossi digiuno da giorni. Avevo la gola secca e le labbra inaridite. Mi guardai in giro, notando quanto il mare avesse ripulito i resti dello sfacelo. Solo qualche elmetto galleggiava in acqua, mentre la sabbia era diventata solo leggermente rosata. Caddi a terra, imbrattandomi i già imbrattati pantaloni con altra sabbia fresca e umida. Dovetti usare tutta la mia forza fisica per rimettermi in piedi. Sarebbe stato difficile raggiungere i miei compagni. Sempre se c’erano ancora, da qualche parte. Sentivo di essere solo al mondo.

Mi arrampicai a fatica sugli scogli aguzzi e viscidi. Inciampai un paio di volte, mi rialzai, risalii. Arrivai in cima, sulla strada. C’erano bussolotti ovunque. Solo li mi venne in mente Fritz. Quando mi ero svegliato, lui non c’era più. Ripensai alla visione del giorno prima. Stavo male, non potevo aver visto quello che credevo di aver visto. Fritz era come me, e con le sue gambe se ne era andato. Sperai solo che non fosse stato preso prigioniero. Non avrei potuto liberarlo, almeno che non avessi voluto finire davanti al plotone di esecuzione, come traditore.

Camminai non so per quanto tempo, stremato, affamato, sfiancato dalla febbre e dai brividi. La sete era diventata insopportabile. Le labbra mi bruciavano, come il viso e la fronte. Sembrava stessi impazzendo. Poi incontrai un uomo, un soldato, un americano. Mi sentii di nuovo vivo.

– Ehi amico – urlai. – Sono qui –

L’uomo si girò e mi guardò. – E tu da dove sbuchi? – domandò – Da dove vieni? –

Io…io ero su Omaha, ieri. Ti prego, dammi qualcosa da bere –

Sbiancò. Forse credeva fossi un fantasma. Poi rise di sollievo: non ero un fantasma. Mi porse la sua borraccia. Bevvi d’un fiato. L’acqua fresca spense lentamente l’incendio che avevo in gola.

– Ehi fratello, fai piano o ti strozzerai –. Mi guardò meglio, vide la mia ferita. – Tu sei ferito, stai male. Come ti chiami? –

Sergente Patrick O’Brien, 116° reggimento 29° divisione di fanteria. Ero nella compagnia A quando siamo sbarcati, ieri mattina –

– Sarà meglio che tu venga dal comandante –

L’uomo si chiamava Joseph Lucas. Era sbarcato insieme alle ultime compagnie. Disse che i nostri avevano stabilito il loro quartier generale in un paesino francese a pochi chilometri dalle coste. Colleville. Erano rimasti in pochi e si erano fermati in attesa di altri ordini. Quasi tutti erano sfiniti, molti feriti, altri quasi moribondi. Di quelli che si erano salvati dallo sbarco, parecchi erano morti durante la notte, a causa delle ferite. Lui era stato fortunato, mi disse. Era sceso per ultimo, quando il peggio era passato. La resistenza andava scemando. Era stato ferito di striscio ad un braccio, ma stava già bene. Io lo ascoltavo, senza capire bene. La febbre mi stava bruciando le viscere e il cervello. Non mi ressi più in piedi. Fu lui che mi venne in aiuto. Mi passò un braccio attorno alla vita e mi sorresse, fino a destinazione.

Arrivammo in paese che io non ero quasi più cosciente. Era inutile portarmi dal comandante, disse. Non sarei stato in grado di fare ne dire niente. Mi fece appoggiare al muro sgangherato di una casa colpita da una bomba. Sparì in una casupola di legno costruita di fretta e furia. Uscì poco dopo, accompagnato da un ufficiale con il camice bianco: un medico militare. L’uomo, alto, magro, sulla trentina, mi scrutò con occhio fermo. Mi tastò la fronte e il polso.

– In infermeria – disse solo. Venni disteso su una barella e portato attraverso stradine strette e dissestate. Non ricordo dove fui condotto. Il dolore era troppo forte, la febbre altissima. Svenni, prima di arrivare a destinazione.

VII.

Rimasi per cinque giorni in preda a una febbre aggressiva e rabbiosa. Il mio corpo venne svuotato da ogni segno di vitalità. Non mangiavo, facevo fatica a bere. Ero sempre arso di sete. Il braccio mi faceva sempre male. Le fitte diventano a volte insopportabili, a volte sembrava non ci fosse più dolore. Nei brevi momenti di lucidità, vedevo una donna avvicinarsi al mio letto, medicarmi la ferita, parlarmi dolcemente in francese. Un’infermiera del posto. Una crocerossina. Poi tutto ripiombava nel silenzio ed io ritornavo preda dei miei incubi e dei miei deliri.

Poi, una mattina, mi svegliai con leggerezza. Le palpebre non pesavano. Mi guardai in giro, notando che le immagini erano nitide e vive. Ero in una stanza bianca, odorosa di alcool e cloroformio. C’era un altro letto oltre al mio. Vi giaceva un ragazzino di circa dodici anni, raggomitolato su se stesso. Dormiva pesantemente. Appesa ad un armadio c’era la mia divisa. Era pulita, senza traccia di sangue ne sabbia.

Scesi dal letto, cauto. Le gambe mi reggevano. Andai alla finestra, l’aprii. L’aria era frizzante e tiepida, un bel sole brillava in cielo. Le strade brulicavano di militari americani e di passanti. Sembravano felici, leggeri. Giovani donne si avvinghiavano alle robuste braccia di soldati. Ridevano, parlavano. Ne udivo le voci allegre.

Il mio stomaco cominciò a brontolare insistentemente. Avevo una fame da lupi. Il ragazzino che c’era nel letto di fronte a me si mosse. Mi vide, spalancò gli occhi, saltò giù dal letto e si mise a correre per i corridoi dell’edificio, dicendo qualche cosa in francese che non compresi. Poco dopo arrivò una ragazza vestita di bianco. Aveva un viso candito e paffuto. Sorrise e mi disse: – Tu stai bene, adesso –

VIII.

La ragazza si chiamava Cosette. Aveva sedici anni e viveva a Colleville fin dalla nascita. Aveva visto i tedeschi arrivare, una notte. I suo genitori avevano nascosto lei e sua sorella nello scantinato. Era stato quello che le aveva salvato la vita. I tedeschi entravano nelle case, mettevano tutto in disordine, portavano via le persone. Cosette, dal suo nascondiglio sotto terra, vedeva soltanto gli stivali neri e lucidi dei militari tedeschi, udiva le loro grida simili a latrati di cane, le urla delle persone, i colpi di artiglieria. Quando uscì dal suo nascondiglio, per strada c’erano solo vecchi e cadaveri. Non rivide più i suoi genitori, ne seppe mai che fine avevano fatto.

Rimasi a letto ancora per qualche giorno. La febbre altissima mi aveva sfibrato ed ero ancora molto debole. Ricevetti la visita del comandante, che mi fece numerose domande riguardo l’accaduto. Gli raccontai quello che voleva sapere. Lui fu felice di sapere che mi ero salvato e che ero ancora utile per altre spedizioni. Mancavano uomini e noi dovevano avanzare. La guerra non era finita.

– C’era qualcun altro con lei? – mi domandò all’improvviso.

Rimasi spiazzato. Dovevo dirgli di Fritz, del nemico a cui avevo salvato la vita? Pensai che non fosse il caso. Risposi quindi di no e il comandante fu soddisfatto.

Ripartimmo dopo qualche giorno, in un alba rossa e triste. Cosette era li, ferma sulla porta dell’infermeria. Mi guardò. – Te ne vai? –

Ritornerò, seulement pour toi –. Lei sorrise.

IX.

Penetrare in Francia non fu facile. I tedeschi non si arrendevano. E ci attaccavano, con estrema forza d’animo. Sfondare le linee “nemiche” fu duro, atroce, mostruoso. Ci aiutarono i partigiani francesi, quelli scampati alle rappresaglie tedesche. Come in Normandia, la gente cadeva come mosche. Gli americani, i francesi, i tedeschi. Ad ogni chilometro, decine di morti. Guardare quei visi giovani, le cui vite spezzate in tenera età. Alcuni soldati tedeschi non avevano nemmeno diciotto anni. Ormai non sapevano più mandare nell’esercito per tirare avanti. Ancora un po’ e ci ritroveremo a combattere contro le donne e i bambini, scherzò un mio commilitone. A me non andava di scherzare. Era ora di finirla con questa carneficina. Era ora di porre fine a questo sfacelo. Era ora di finirla di morire in nome di ideali viziati, di una guerra senza valori. Ma io non ero nessuno per poter cambiare il corso degli eventi. Solo una goccia d’acqua dolce in un oceano salato.

Attraversammo la Francia in due mesi. A me sembrarono anni. Arrivammo a Parigi ad agosto, in una mattina afosa e opprimente. I tedeschi erano fuggiti, ma alcuni erano stati fatti prigionieri. Guardai le loro facce, una ad una. Visi sconvolti, tristi, inespressivi. Mi ricordai di Fritz e delle sue parole: non sono nemici, solo vittime.

Rimasi a Parigi per un po’ di tempo, d’istanza insieme ad altri soldati americani. La popolazione era allo stremo, soffocata dai tedeschi, privata della dignità, in preda alla paura e allo sconforto. Scrissi lunghe lettere a Cosette, con l’aiuto di un civile francese che aveva studiato in America. Lei mi rispondeva prontamente, ed io ero felice. Le cose al suo paese andavano bene. Qualche giovane che era stato portato via dai tedeschi era tornato. Sua madre era tornata indietro. Era fuggita da un campo tedesco. Era magra come un chiodo. Cosette era sicura che non si sarebbe ripresa. Infatti morì poco dopo, di consunzione. Fu uno degli ultimi colpi di ascia sulla mia testa. Ormai mi ero abituato all’orrore, ma non abbastanza per smettere di piangere, di notte, per Martin.

Un pomeriggio di pioggia il nostro comandante venne a dirci che dovevamo andare. Le frontiere con la Germania erano state sfondate, c’era bisogno di uomini e mezzi. Partimmo poco dopo, alla volta della Germania. Fummo divisi in due battaglioni, io fui aggregato a quello del fronte sud. Altri ostacoli, altri sacrifici. Come prima. No, non era come prima. Ma nessuno poteva immaginare quello che ci saremmo trovati davanti. La punta massima dell’orrore tedesco.

Era una mattina di sole. Faceva caldo per essere primavera. Davanti a noi si presentò un cancello in ferro battuto, delle torrette, dei camini, del filo spinato. Un campo di concentramento nazista. Buchenwald si chiamava. Non c’erano tedeschi, erano scappati da qualche giorno. Entrammo, trovandoci davanti a delle carcasse umane bianche e spente. Prigionieri. Erano quelli che stavano meglio, che erano in grado di camminare e procurarsi quel poco cibo che era rimasto. Ci vennero incontro esultato e piangendo, urlando di gioia. Parlavano una moltitudine di lingue che era impossibile comprendere. Ci prendemmo cura di queste persone, tramutate in animali e sballottante di nuovo nella realtà umana. Sarebbero stati in grado di riprendere a vivere la dove avevano smesso?

In infermeria c’erano molti malati. Difterici, dissenterici. Giacevano immobili, avvolti in sudice coperte puzzolenti, accanto ai cadaveri. Cadaveri scheletriti e bianchi come la carta, uno sopra l’altro, come un mucchio di rottami. Erano a centinaia, migliaia. Erano ovunque: nei crematori, nelle strade, nelle baracche. La puzza che emanavano mi salì rapidamente alle narici, facendomi vomitare. Nessuno, tra i nostri, sapeva che fare, cosa dire. Neanche le lacrime volevano uscire dai nostri occhi increduli.

Furono giorni pesanti. Scavare fosse comuni, gettarci i corpi sfatti. Non finivano mai. C’erano più morti che vivi. Molti dei sopravvissuti si aggiunsero a loro, nei giorni seguenti. Uomini, donne. Non possedevamo medicine adatte per curare i loro mali. Molti morirono per il troppo cibo, a cui non erano più abituati. Altri, invece, perché non avevano più voglia di vivere, ne di lottare. Così era morto un ragazzino ungherese. Fino all’ultimo aveva guardato fisso il soffitto dell’infermeria, aveva rifiutato il cibo e l’acqua. Si era lasciato andare, in preda ad un’apatia e una tristezza sconosciuta a noi “esseri umani”.

Il duro lavoro aveva assorbito le mie energie fisiche e mentali. Solo dopo alcuni giorni mi ricorda di Franz. Lo cercai affannosamente tra i superstiti che giacevano mezzi morti nei letti del campo di accoglienza della Croce Rossa. Non sapevo che faccia avesse ne se era ancora vivo. Chiesi ad un’infermiera italiana di istanza nel campo. Lei si fece leggermente pensierosa, poi si dileguò dietro una tenda. Tornò poco dopo, in compagnia di un uomo magro e gonfio, mal rasato, con addosso una divisa a righe sporca di fango e sangue.

– Lui è Franz von Müller – mi disse. – Mi raccomando, non lo stanchi troppo: è ancora molto debole –

Rimanemmo per qualche minuto a fissarci l’un l’altro, senza parlare. Poi lui fece la prima mossa. – Chi sei? – mi domandò, in perfetto inglese.

– Un soldato americano. Devo parlarti –

Mi seguì in una baracca poco distante. Gli offrii una zuppa di carne e verdura, che mangiò con calma, quasi fosse un cibo prelibato. Gli chiesi molte cose, sul campo, sui tedeschi, sulla sua vita nel lager. Fu sbrigativo, conciso, truce. Non voleva parlare molto, ne io avevo voglia di ascoltare altri orrori.

Finita la sua zuppa, mi rivolse uno sguardo colmo di curiosità. – Come sai di me? – domandò. – Non mi pare di conoscerti –

– E’ stato tuo fratello a parlarmi di te e del fatto che eri rinchiuso a Buchenwald –

– Mio fratello Fritz? –

Certo, proprio lui –

Alzò gli occhi, sorridendo. Il suo viso incavato ricalcava la forma del suo teschio. – Che cosa c’è? –

Si era seduto qualcuno accanto a noi. Mi voltai e vidi il volto sorridente di Fritz. Vestito come l’ultima volta, quando l’avevo visto. Ma era passato quasi un anno! – Fritz, ti vedo bene! –

– Anche io vedo bene te. Sono contento tu arrivato e preso cura di mio fratello. Adesso posso finalmente andare –

Accadde ancora, come quella notte nella grotta. La sua immagine si fece evanescente e sparì. Stavolta, però, ero lucido. Il cuore batté forte nel petto. Mi alzai, tremando. Stavo per mettermi ad urlare. Franz mi prese la mano, dicendomi che era tutto a posto. Era sereno, ma quello che era successo…taibhse. Allora non avevo sognato. Lo lasciai seduto sulla sua panca e me ne andai. Taibhse, ripeteva la mia mente.

Passai gli altri tre giorni seduto sul mio letto, a pensare, a pregare. Avevo perso totalmente il contatto con la realtà. Il sole si alzava e poi scendeva, e poi si rialzava. Sempre così. Le voci che sentivo si facevano flebili e acute, vispe e tristi. Davanti a me sfilavano ex prigionieri e soldati, ma io non li vedevo. Volevo solo svegliarmi da quell’incubo, che mi sembrava ogni giorni più irreale.

Franz mi venne a salutare, prima di tornare a casa. Si era ripreso in fretta. Mi strinse la mano, sorridendomi. Torno a casa, disse. Non so se troverai ancora una casa, dissi io. Pazienza, la ricostruirò.

– Porta un fiore sulla tomba di Fritz da parte mia, quando andrai a trovarlo –

Franz perse il sorriso. – Fritz non ha una tomba. Non hanno trovato il suo corpo. E spero non lo trovino. Mi piace immaginarlo così com’era, come lo hai visto anche tu. Non potrei sopportare la vista di un corpo mutilato o carbonizzato –.

Franz se ne andò, con passo traballante. Lui, a differenza del fratello, è ancora vivo.

Ricevetti finalmente il congedo. Non c’era più bisogno di me. La guerra era finita, trascinandosi dietro una scia immensa di morti e di disperati. Non sapevo se erano più fortunati i morti o i vivi. Perché chi era sfuggito alle bombe, ai lager e alle pallottole era comunque stato distrutto dalla guerra. Io invece ero solo una piuma pronta a farsi trascinare dal vento.

Presi la mia roba e me ne andai. Mi accompagnò un mio commilitone su di un camion. Le ferrovie erano inagibili. Arrivai a Colleville, presi Cosette e ci preparammo per tornare a casa. Sarei tornato in America. Mi avrebbero visto come un eroe, anche se ero solo un povero ragazzino distrutto. Il giorno prima di partire, tornai ad Omaha. Lanciai un mazzo di fiori sulla spiaggia, per i miei compagni caduti, per Martin, ma soprattutto per Fritz. Lui non avrebbe avuto una tomba, ne onorificenze. Il nemico che mi aveva salvato la vita, anche se troppo tardi per salvare la sua. Rimasi qualche istante a guardare la spiaggia, poi le voltai le spalle. E me ne andai, per sempre.

See ya! :-)





[1] Come ti chiami

[2] partito di sinistra tedesco, abolito da Hitler negli anni ’30.

[3] Sterminio di popolazioni

[4] Fantasma, gaelico irlandese