Inutile negare che ultimamente questo blog sta diventando forse troppo personale, ma presto ricomincerò a commentare le notizie lette sui giornali o in giro per la rete...
I.
6 giugno 1944, ore 2:30,
Faceva piuttosto freddo, nonostante fosse giugno. Ma non c’era da stupirsi, a quella latitudine. Il cielo era cupo, nero, privo di stelle e luna. Feci quattro passi sul ponte, mentre i miei compagni bevevano e dormivano nelle cuccette sottocoperta. Sarebbe stata una giornata pesante, quella che ci si profilava davanti. Nessuno era preparato a dovere, tantomeno io. Ma nessuno, credo, pensava che cosa ci aspettava. Nessuno poteva immaginare lo scempio e l’orrore che ci saremmo trovati davanti agli occhi. Nessuno poteva prevedere un simile disastro.
Martin, il mio migliore amico, venne sul ponte. Barcollava e cantava a squarciagola. Mi vide affacciato al parapetto della nave e mi venne incontro. Mi diede una pacca sulla spalla, sorridendomi. – Belle coste, vero? –
– Come fai a vederle? –
– Me le immagino. Chissà cosa stanno facendo quei bastardi dei tedeschi –.
Bevve un sorso di rum. Mi porse la bottiglia ma io rifiutai. Non avevo voglia di bere. Il suo viso si fece serio. – Eh si, credo che dovremo dare un bacio d’addio alle nostre chiappe. Sempre che io riesca a raggiungere le mie –.
Rise, io non ci riuscii. Mi diede un’altra pacca sulla spalla e rientrò sottocoperta, cantando a squarciagola l’inno americano. Molti si lamentarono di ciò, ma lui non tacque. Era felice, ma anche molto ubriaco. L’alcool gli aveva alterato il cervello. Non pensava più a niente. Forse era meglio così.
Mi voltai. L’Irlanda non era lontana. Poche miglia. Io venivo da li. Eh si, il contadino irlandese che va a cercare fortuna negli Stati Uniti. E invece avevo trovato la disgrazia. Ma quando ero partito non lo potevo prevedere. Ero un ragazzo di sedici anni, con la testa piena di sogni e la speranza di poter guadagnare qualche cosa. Insomma, partito con un fagotto rattoppato pieno di stracci per tornare con una bella valigia di pelle piena di bei vestiti e un bel fascio di verdoni!
Ero il primo di dieci fratelli. All’epoca noi ci riproducevamo come conigli. Più figli, più braccia da lavoro, più soldi. Ma di soldi se ne vedevano ben pochi. Mio padre si era spaccato al schiena per coltivare una terra arida. Ed aveva ricevuto in cambio solo un pugno di mosche. Era morto di fatica, a soli cinquant’anni. E mia madre, da sola, non riusciva a fare niente. Io, ancora bambino, feci un’infinità di lavori. Bracciante agricolo, calzolaio (anche se pochi portavano le scarpe), garzone a giornata. Ma i soldi, quelli veri, non sapevo nemmeno che forma avessero. Quante volte piansi fino ad addormentarmi, mentre vedevo mia madre consumarsi lentamente e i miei fratelli magri come chiodi. E allora andai, lontano. Trovai un buon lavoro. Ero sfruttato ma felice. Ma volevo di più. E mi arruolai nell’esercito. Una buona paga. Ero felice. Almeno prima di essere spedito qui. Prima di partire mandai una lettera a mia madre dicendo che sarei tornato presto. Ormai eravamo agli sgoccioli, come tutti dicevano. In quel momento ero sempre meno sicuro di rivederla.
II.
6 giugno 1944, ore 6:00, poche miglia da Omaha beach
La spiaggia davanti a me. Una massa informe. Presi il binocolo e guardai meglio. Qualcosa in più potevo vedere. Le trincee nemiche. I tedeschi erano la, da qualche parte. Pronti a sparare. Tutti eravamo sul ponte. Alcuni tremavano, ma evitavano di farlo vedere. Martin era accanto a me, con il viso tirato in una smorfia di apprensione. Ed io, ero forse più tranquillo? Avevo paura che gli altri potessero sentire il rumore del mio cuore, da quanto batteva. E non ero sicuro di poter tenere le mani ferme. Quando avrei voluto tornare indietro, far finta di niente. Ma non potevo tornare indietro. Ormai ero li, e ci dovevo rimanere. Avrei dovuto non arruolarmi. Ma volevo di più. Ero uno stupido venale. Mi avevano abituato così. Non era una giustificazione.
Martin bevve un sorso di succo d’arancia mischiato a del rum di pessima qualità. Lo bevvi anch’io: era una cosa disgustosa. Lo sputai, pulendomi la bocca con la manica della mia giacca.
– Sai cosa ti dico Paddy– iniziò – se sopravvivo a questa avventura, giuro che non farò più il cretino a Sand Beach. L’ultima volta ho rischiato l’arresto –
– Ma lo farai da qualche altra parte – dissi io.
– Lo sai che sono un cattivo ragazzo, vero? –. Era ancora leggermente ubriaco, ma quella frase la pronunciò con un velo di tristezza. Non l’avevo mai visto triste, dal primo giorno in cui l’avevo conosciuto. E non era triste nemmeno sul fronte asiatico, a combattere contro giapponesi. Poi l’avevano mandato qui. Ma sarebbe stato più al sicuro a Sumatra o su Omaha beach? Forse è assurdo, ma credo lui sentisse quello che gli sarebbe successo. E forse anche lui stava pensando all’errore che aveva fatto. E sapeva che non poteva porvi rimedio.
Abbassai la testa, guardando il mio fucile. Mi ricordai delle cavolate che facevamo in spiaggia, d’estate. Io che cantavo fino a farmi venire il mal di gola e lui che correva nudo sulla spiaggia, scandalizzando giovani ragazze appena uscite dal collegio e vecchie avvizzite troppo moraliste. Rischiammo più volte di essere arrestati. Ma levavamo le tende prima. E quella volta che aveva fatto uno scherzo al nostro comandante? Se l’era vista proprio brutta. Ma il vecchio Condor, come lo avevamo chiamato, aveva un cuore di burro. E si limitò a fargli pulire la caserma da cima a fondo. Con uno spazzolino! Sospirai. Speravo di poter ritornare così, di fare ancora il cretino con Martin, di ritrovare la mia adolescenza perduta. Non sarebbe successo più niente di tutto ciò.
Ci avvicinammo sempre più. L’H-hour era vicina. Il mare era mosso. Mi venne la nausea. Poi mi venne il mal di stomaco. Non ero abituato a navigare con un mare simile. Le onde erano alte, scure, minacciose. Sembrava volessero annegarci, inabissarci, nascondersi all’orrore della guerra. Nel giro di poco, avvertii dei forti conati di vomito. Vomitai, sul lato sinistro dell’imbarcazione. Non vedevo l’ora di arrivare a riva. Non mi interessava niente dei tedeschi, delle loro schifose armi, della morte. Tutto, ma non quel supplizio. Martin rise, e continuò a bere. Finita la sua bevanda disgustosa, gettò la bottiglia in mare. Adesso sembrava aver ritrovato una certa stabilità. E sembrava ritornato il vecchio Martin di prima. Ma anche lui, in fondo, aveva un’autoconsapevolezza. E credo si rendesse conto che non sarebbe stato come fare una passeggiata sulla nostra solita spiaggia. Martin, si, in fondo era una persona molto intelligente, anche se dimostrava il contrario. Mi piaceva come amico.
La spiaggia era sempre più vicina. Il nostro comandante stava cominciando a darci degli ordini. Martin fece un rumoroso rutto e disse: “Buona fortuna amico.” E baciò il suo crocifisso. Non lo aveva mai fatto.
III.
6 giugno 1944, ore 6:30: H-hour ad Omaha beach, inizio missione compagnia A
Adesso la spiaggia era a pochi passi da noi. Non era bella come me l’ero immaginata. Era grigia e sporca, piena di sassi e scogli appuntiti. Nessuno ebbe il tempo di rammaricarsene. Qualcosa ci piovve addosso, alzando ancora di più le onde: colpi di mortaio. Ci furono i primi morti. Il loro sangue schizzava sui bordi della nave.
– Oh Cristo! – urlò Martin.
Mi strinse la mano. Lo guardai, poi abbassai lo sguardo. C’era una pozzanghera giallognola ai suoi piedi: se l’era fatta sotto. Ma non era l’unico. Anch’io ero terrorizzato. Vidi un soldato accanto a me urlare. Non avrebbe dovuto farlo. Un proiettile gli fece saltare la testa. Martin urlò e vomitò.
– Giù la testa! – urlò il nostro comandante. Tutti obbedirono. Nessuno voleva fare la fine di quel poveraccio. Molti, quasi tutti, credevano di poterla evitare.
La tattica si rivelò utile solo all’inizio. Il fuoco pioveva da tutte le parti. Sembrava un uragano di piombo. Alzai la testa, per vedere che cosa stesse succedendo. Vedevo solo l’acqua incresparsi ed alzarsi, le granate caderci addosso. Non sapevo quanti erano stati colpiti, ne quanti erano già morti. Non volevo saperlo. Non me la sentivo.
Venne abbassata la rampa. Dovevamo scendere. Io ero il quinto. Martin era dietro di me. Dovevamo liberare il terreno per gli altri che stavano dietro di noi. Mentre mi stavo preparando per scendere, vidi un corpo galleggiare in acqua. Era uno degli addetti ai carri armati. Era annegato. Il mezzo era affondato. Come molti altri. Feci il segno della croce: la vedevo proprio brutta.
Fu il mio turno per scendere. Esitai un attimo, creando ingorgo. Forse fu un bene. Martin venne sfiorato da un proiettile, che si conficcò nel ferro della nave. Gli avevo salvato la vita, anche se di poco. Dietro di me molti cominciarono ad imprecare, allora mi decisi a saltare.
Toccai l’acqua con estrema violenza. Ebbi l’impressione di essere immerso in una vasca di ghiaccio e piombo. Il mio equipaggiamento era già pesantissimo. L’acqua lo aveva inzuppato e lo aveva reso ancora più pesante Mi mossi lentamente, faticosamente. Mi sentivo come Gesù con la croce in spalla. Solo che per me era un fucile. E il Golgota aveva assunto le sembianze di una spiaggia francese grigia e piena di fucili spianati pronti a colpirmi.
Qualcosa mi colpii e finii sott’acqua. Mi sembrò di annegare. Risalì a fatica, boccheggiando e sputando acqua salata. La gola e le narici mi bruciavano. Accanto a me, un cadavere. Era stato quello che mi aveva colpito. Mi aveva salvato la vita. Non sapevo chi era, ma lo ringraziai.
Avanzai nell’acqua fredda. Da grigia e livida si era fatta rossa di sangue. I cadaveri erano ovunque: sulla spiaggia, in acqua. Galleggiavano come tanti salvagente, con il loro sangue che faceva da contorno al loro involucro ormai vuoto. Erano tutti giovani quelli. Poco più grandi di me. Magari anche qualche coetaneo Tutti con la testa piena di speranze, che adesso non avevano più. Molti di loro avrebbero ricevuto una medaglia per il loro “eroismo” in guerra. Ma a che serviva una medaglia per chi nel petto aveva solo piombo? E alla fine quei ragazzi erano veramente degli eroi? No, ecco quello che pensavo. Erano solo ragazzi, con la testa piena di sogni, con la voglia di vivere in un mondo migliore. Ma quel mondo non lo avrebbero mai visto, perché loro erano morti all’inferno, e il loro paradiso era lontano. Perché la guerra gli aveva tolto tutto, e avrebbe tolto tutto a molte altre persone. La sua smania di carne umana era insaziabile.
Mi voltai. Dov’era Martin? Era dietro di me, poco prima. Lo sentivo pregare, piangere, imprecare. E adesso… Dovevo cercarlo. Non ce l’avrei fatta ad andare avanti senza di lui. Per fortuna tra i cadaveri non c’era. Lo vidi poco più avanti, arrancare nell’acqua rossa e mossa. Si forzava di arrivare alla spiaggia dove i cadaveri giacevano immobili, immersi nel loro sangue. Tutto, attorno a me, si era tinto di rosso. Martin urlava, chiedeva aiuto, annaspava, ansimava. Cercai di avvicinarmi a lui, ma altre raffiche di fuoco mi sfiorarono. Mi abbassai nell’acqua, cercando di avvicinarmi. Forse avrei potuto aiutarlo. Avevo visto un posto riparato, dove i proiettili non piovevano.
– Martin, avvicinati – urlai – Martin, cazzo, vuoi avvicinarti? – Non mi sentiva: le sue urla inarticolate coprivano la mia flebile voce. – Martin, cristo, sei sotto il tiro nemico –
Martin andò sott’acqua. Lo vidi emergere poco dopo, con la testa sanguinante. Era stato colpito, forse di striscio. Corsi più che potevo, con movimenti goffi. Inciampai in un sasso e caddi a terra: avevo raggiunto la riva. Strisciai bocconi tra i cadaveri, lentamente. La sabbia mi sporcava i vestiti e l’attrezzatura, ma non me ne curai. La sabbia si poteva lavare via, una vita umana persa non la si poteva più recuperare.
Non potevo rimanere a lungo in quella posizione. Sarei stato sicuramente colpito. Dovevo fare qualche cosa. Afferrai il mio fucile e cercai di sparare. Ne venne fuori un suono sordo. Si era inceppato. Era pieno d’acqua e sabbia bagnata. Strisciando, cercai un angolo meno pericoloso dove fermarmi per pulire la mia sola salvezza.
Un angolo di spiaggia tranquillo. Un piccolo miracolo all’inferno. I tedeschi non avevano la visuale in quell’ansa seminascosta da grosse pietre. Strisciai sulla spiaggia e raggiunsi il posto. Mi misi a sedere e mi liberai dell’attrezzatura. Mi sentii più leggero, quasi nudo, tremande, a pulire il mio fucile. Lo feci con rapidità, cercando di evitare di guardare quello che stava succedendo attorno a me. Ma non potevo evitare tutto. Come non evitai la vista di un giovane soldato inglese, che raccoglieva il suo braccio. O come quel soldato di colore che mi trovai di fianco, con la bocca sanguinante e schiumosa. Alzò la testa, come per dirmi qualche cosa, ma non fece in tempo. La pallottola che lo perforò fu più veloce di lui. E il suo sangue schizzò sulla mia faccia.
Adesso il fucile era pulito. Dovevo solo provarlo. Bastava ricominciare la “festa”. Ricominciai a strisciare come un verme, a scansare i cadaveri evitando che la loro vista mi facesse stare male. Un proiettile colpì la sabbia e l’alzò, mandandomela negli occhi. Li ripulii come potevo, ma non feci altro che peggiorare la situazione. Avanzai alla cieca, mentre gli occhi mi lacrimavano. Fu un bene, perché la sabbia uscì, permettendomi di vedere dove stavo andando.
Strisciai nella sabbia, fredda come il ghiaccio. Il mio fucile nella mano sinistra. Non capivo più niente. Avrei dovuto alzarmi, sparare, ma non ne ce la facevo. Continuai quindi a strisciare, accanto a me solo cadaveri. Ormai pensavo di essere l’unico vivo. Ma per quanto lo sarei stato ancora? Quell’agonia era tremenda.
Avevo la certezza di non farcela. Tutte le speranze del mondo non avrebbero potuto farmi uscire vivo da quell’inferno. La mia vita mi passò davanti tutta, velocemente, come in un film. Partì dalla mia infanzia per finire con il viso allegro di Martin. Martin, lui, l’unico che mi aveva fatto capire che la vita andava presa alla leggera, qualche volta. Ma non c’era niente di spensierato in quell’occasione. Solo il pesante coperchio della morte, che mi soffocava, mi opprimeva. Solo la certezza che tutto sarebbe finito, prima di sera. Non c’era più niente da fare. Nemmeno il pensiero di mia madre e dei miei fratelli mi scosse da quel torpore mortale in cui ero piombato. Avevo la sensazione di non provare più nulla, ne rimpianto, ne dolore, ne gioia. Ero un vegetale, un morto.
Ci fu una pausa. Non sparavano più. In un impeto di rabbia, follia, paura, non lo so, mi alzai in ginocchio e sparai. Sparai all’impazzata, urlando, imprecando, contro il mondo, contro i tedeschi, contro me stesso. Una pallottola mi colpì, un colpo sordo, ma non sentivo niente. Sparavo e sparavo, urlando. Colpii una testa che si era incautamente alzata dalle trincee. Sparii in un attimo. Poi caddi a terra, stremato, ansante. Avevo dato sfogo all’ultimo barlume umano.
Qualcosa mi toccò debolmente il braccio. Era Martin. Era pallido come un morto e la sua ferita continuava a sanguinare. No, non era stato un colpo di striscio.
– Martin, come stai? – domandai.
Cercò di dire qualche cosa, ma la voce non gli uscì. Mi fissava, con quegli occhi quasi vitrei. Lo abbracciai. Lui venne scosso da un forte fremito, poi rimase immobile. La sua mano destra cadde mollemente nella sabbia. Il suo corpo si fece più pensante. Ne avevo la certezza: non l’avrei più rivisto ridere. Non avrei più sentito la sua voce.
– Martin… – sussurrai. E basta. Le parole che avevo in bocca erano troppo dure per poter essere pronunciate. Era meglio stare zitti.
Lo feci cadere a terra. Le mie mani erano diventate pesanti. Mi sentivo malissimo. Come se il mio cuore volesse esplodermi nel petto. Il mio cervello si era fermato. Neanche il rumore delle mitragliatrici sembrava darmi più fastidio. Rimasi in ginocchio davanti la corpo di Martin. Potevano anche colpirmi, se volevano. Anzi, colpitemi. Portatemi via da questo inferno. Portatemi via dal sangue, dalla morte. Portatemi via dalla guerra, questa dannata. Da quanto gli uomini avevano cominciato a combattere, questa aveva solo portato morte. Guerra e Morte, le perfide sorelle. E sarebbero andate avanti ancora per molto, a braccetto, nutrendosi di carne umana e di sangue, di dolore e di violenza, di disperazione e di solitudine. La guerra portava solo del male. E, per me, non esistevano ne vincitori ne vinti: solo le Sorelle vincevano, e gli uomini soccombevano.
Mi resi conto, però, che ero ancora vivo. Si sparava ancora. Altre compagnie di soldati scesero a terra e vennero freddate. Uno ad uno, come mosche, cadevano, per non rialzarsi più. Dunque ero ancora vivo. Se mi fossi lasciato andare, Martin non me lo avrebbe perdonato. Ripresi in mano il fucile e continuai. Anche per te, pensai. Sparai, mi alzai, mi abbassai, mi nascosi tra i cadaveri. Tutti i miei gesti erano diventati automatici. Visto che non avrei vissuto più come prima, l’unica cosa che potevo fare era riuscire ad uscire vivo da li.
La salvezza mi si presentò sotto forma di rifugio. Un pertugio nella roccia, una caverna. Era spigoloso, stretto, ma abbastanza largo per poterci passare attraverso. Mi svegliai dal mio torpore mortale e strisciai a ridosso dei cadaveri. I tedeschi gli sparavano addosso, credendoli vivi. Ebbi salva la pelle. In pochi minuti arrivai a destinazione. Mi buttai dentro. Era più ampia di quanto pensassi. E buia, fredda, profonda. Fuori, il fuoco continuava a piovere. Chiusi gli occhi per non vedere quello strazio. Ritrovai la mia umanità e piansi. Ormai la mia vita era rovinata. Non ci sarebbe stato ritorno.
IV.
Aprii gli occhi. Avevo dormito un sonno pesante e senza sogni, quasi mortale. Mettendomi a sedere, tesi l’orecchio. Silenzio. Mi affacciai alla feritoia. Notte. Nessuna nave in avvicinamento, nessun tedesco, nessun rumore. Mi alzai in piedi ed uscii, con il fucile puntato. Non c’era più niente. Anche i cadaveri sembravano scomparsi. Davanti a me, una notte senza luna, come la precedente. Sembrava che tutto fosse piombato in una calma irreale. Solo l’odore del sangue, forte e penetrante, mi fece ricordare ciò che era successo. E il mio braccio, che mi faceva un male del diavolo. Forse avrei dovuto prendere il coltello che avevo nella tasca dei pantaloni ed estrarmi la pallottola, ma non ebbi il coraggio. In preda alla nausea, alla paura e al freddo, rientrai nella caverna e ritornai a sedere. Appoggiai la schiena contro la nuda roccia e cercai di pensare. Dovevo rimanere lucido.
Mi accorsi di non essere solo. Dei passi rimbombavano in quel vuoto. Nel giro di poco furono dietro di me. Forse un mio commilitone. Cambiai idea quando sentii la gelida canna di una pistola contro il mio collo. Alzai le mani.
– Wie heißt du?[1] – disse una voce profonda e giovanile.
Un tedesco: ero fregato. Il mio fucile era rimasto senza pallottole e non avevo altre armi. Non potevo difendermi. Lui mi avrebbe sicuramente ucciso.
– Wie heißt du? – ripeté, con maggior enfasi.
– Non ti capisco– dissi io.
– Americano? – domandò, con forte accento tedesco.
– No, irlandese –
Lui rise. – E che cosa fai qui? –
– Potrei porti la stessa domanda –
Allontanò la pistola dal mio collo. Tirai un respiro di sollievo. Evidentemente non aveva intenzione di uccidermi, ma solo di farmi suo prigioniero. Ma era meglio essere morti o finire in un campo di lavoro tedesco?
Mi voltai. Mi trovai di fronte ad un ragazzo biondo, giovane, alto, con la carnagione chiara tipica dei tedeschi. Aveva la divisa sporca, gli stivali infangati, i pantaloni laceri.
– Che cosa ti è successo? – gli domandai.
Lui mi rispose con un’altra domanda, sempre nel suo inglese stentato. – Allora, dimmi come ti chiami –
– Patrick O’Brien –
– Quanti anni? –
– Diciotto –
– Giovane –
– E tu quanti ne hai? –
– Ventidue –
– Anche tu sei giovane –
Rise e mi guardò. – Patrick O’Brien irlandese – ripeté. Si accese una sigaretta. – Irlanda neutrale. Perché tu qui? –
– Per errore
– Ah! –. Mi tese il pacchetto di sigarette. – Sigaretta? – Lo guardai stranito. Rise ancora. –Niente veleno–
Ne presi una, l’accesi e fumai. Non fui mai così felice di farlo. Il fumo mi andava giù in gola, rapido, tossico. Tossii parecchie volte, mi venne la nausea, ma continuai ad aspirare alacremente.
– Tu come ti chiami invece? –
– Fritz von Müller – rispose il ragazzo. – 352° divisione fanteria esercito del Reich. Voi avete combattuto contro noi oggi. Tanti morti, ho visto –
– Grandissimi bastardi –
– Forse, ma voi avete fatto errori. Poi vinto. Esercito tedesco arretrato –
– E tu come lo sai? –
– Visto tutto –
– E allora che cosa ci fai qui? Potrei prenderti come prigioniero –
Fritz spense la sua sigaretta. – Non lo farai –
– Sei un disertore? –
Il ragazzo annuì. – Odio la guerra e odio il Führer. O mein führer, per precisione –. Fece il saluto nazista, ridendo. – Hitler sereno, la guerra è nostra. Forse vuole evitare che gente si spaventi. Ma ormai mezza Germania rasa al suolo, migliaia di morti, tanti sfollati: chi vuole prendere in giro? Guerra per Germania persa, Kaputt! –
– Non credo lui sia d’accordo. Se ti sentisse…–
– Andrei in der lager, come mio fratello –
– Tuo fratello è prigioniero in un lager? –
– Ja, da due anni ormai –
Mi fece cenno di alzarmi. Accese una torcia e mi condusse poco più lontano. C’era una camera un po’ più ampia. Ci sedemmo sul pavimento freddo e umido. C’era una forte puzza di muffa. Lui mi porse una scatoletta di carne e una bottiglia di Vermut. – Mangia, devi riprendere forze –
– Perché fai tutto questo per me? Io sono tuo nemico –
– Tu nemico? Non credo. Guerra mia nemica, non tu. Forza mangia –
– Non ho fame–
– Tu sconvolto e posso capire, ma devi mangiare – . Mi guardò il braccio destro. – No, forse prima togliamo la pallottola –
Fritz estrasse il suo coltello, mi strappò la manica della camicia e lo conficcò nella mia pelle. Il dolore era tremendo. Mi morsi violentemente il labbro inferiore, per non urlare. Vedevo il sangue che sgorgava a fiotti. E quella lama penetrare nella mia pelle. Mi sentivo male.
– Eccola qui, molto grossa – disse Fritz. Poi mi disinfettò e bendò il braccio. Il dolore andò man mano scemando.
– Quando arrivi al campo da tuoi amici, fatti medicare bene. Io non ho niente per disinfezione. Fa infezione già –
Mi porse di nuovo il cibo. Mi accorsi di avere fame e mangiai. Divorai tutta la razione, che sembrò la più buona che avessi mai mangiato. Fritz era seduto di fronte a me. Lui non mangiava. Mi porse il Vermut e lo trangugiai come se fosse acqua fresca. Lo sentii bruciare nel mio stomaco. Ero felice di sentirlo bruciare, ero felice di sentire la mia testa leggera come un pallone sospinto dal vento, ero felice di essere euforico.
V.
Faceva freddo. Il vento soffiava tra le feritoie della grotta, provocando rumori assurdi e irreali. Sembravano latrati di cani, urla strazianti, rombi di tuoni, grida confuse. Tremavo come una foglia. Mi sentivo bruciare: mi era venuta la febbre. La situazione stava peggiorando.
Fritz era li, accanto a me, con gli occhi fissi verso il vuoto. Iniziò a parlarmi, con quel suo inglese fortemente germanizzato e poco corretto. Era nato a Norimberga, ma viveva a Weimar. Era una bella cittadina, prima della guerra. Poi avevano cominciato a bombardarla, e aveva perso il suo colore. Mi parlò rapidamente della sua vita, inserendo particolari insignificanti come la sua scuola, la sua adolescenza, i suoi amori. Suo padre era anche stato nell’esercito e aveva combattuto contro i francesi sul fronte occidentale durante
– I lager non sono semplici campi di lavoro– denunciò – li c’è morte. Noi sappiamo, ma zitti. Meglio avere paura ma vivi, che prigionieri e morti. Da li torni solo se hai amici. E per fare amici devi uccidere, schiavizzare, fare Kapo: perdere umanità –
– Ho sentito anch’io certe cose– iniziai a fatica. La voce sembrava non volermi uscire dalla gola. – Le notizie,però, sono molto confuse –
– Li mio fratello, Patrick. Promettimi che se arriverai a Buchenwald aiuterai Franz. Sento lui ancora vivo. Almeno lui –
– Cosa vuoi dire? –
Notai che Fritz aveva il viso bagnato. Piangeva. – Ti prego, libera mio fratello. Li si pratica vernichtung[3] –
– Cosa? Non ti capisco –
– Vernichtung, Vernichtung – ripeté con foga. - Non so inglese per questa parola. Juden, Vernichtung“ –
– Juden, ebrei, ma vernichtung che significa? Ti prego spiegati –
– Bitte, mein freund, bitte – disse soltanto.
Iniziò a farfugliare qualche cosa in tedesco. Non capivo cosa diceva, ma capivo che era distrutto. Non sapevo che cosa volesse dire quella dannata parola. Sapevo che non doveva essere una bella cosa. Per la prima volta, non odiai un tedesco. Mi avevano insegnato ad odiare i tedeschi. Lui non lo odiavo, non potevo odiarlo. Anche lui era un vittima della guerra. Anche i tedeschi erano vittime della guerra. Anche loro soffrivano, come noi. Tutti erano vittime della guerra. Tutti gli innocenti. Perché eravamo tutti innocenti.
Continuò a farfugliare parole incomprensibili per altri dieci, venti minuti. Io stavo sempre più male. Ansimavo, sudavo, tremavo. E lui…aveva cominciato a farsi sottile, evanescente. Vedevo la parete rocciosa attraverso la sua figura. La sua voce sembrava lontana. Mi spaventai. Ma cosa sei, avrei voluto dire. La voce se ne era andata. E non avevo la forza di aprire la bocca. Ormai era diventato aria. Sparì sotto i miei occhi, lasciando una nuvoletta gelida che mi attanagliò le membra. Uno…taibhse[4]: fantasma. No, ero io che ero diventato un fantasma. Perché forse ero morto. Vedevo luci strane davanti ai miei occhi. Forse stavo andando nel regno di morti. Chiusi gli occhi, ed ebbi la sensazione di volare. Adesso ero andato. Ero finalmente morto.
VI.
7 giugno 1944, ore 7:00
Mi svegliai di soprassalto. Freddo. Era un mattino senza sole, grigio, spento. Mi alzai. Facevo fatica a stare in piedi. Il braccio mi faceva ancora molto male. La benda con la quale era stato bendato era sporca di sangue e di una sostanza giallognola: era pus. La mia ferita si era infettata. Tutto il mio corpo era scosso da tremori fortissimi. I miei occhi facevano fatica a mettere a fuoco gli oggetti. Dovevo avere la febbre alta.
Mi incamminai con lentezza incredibile lungo la spiaggia. Le gambe facevano fatica a reggermi in piedi. Lo stomaco mi si contraeva furiosamente per la fame, come se fossi digiuno da giorni. Avevo la gola secca e le labbra inaridite. Mi guardai in giro, notando quanto il mare avesse ripulito i resti dello sfacelo. Solo qualche elmetto galleggiava in acqua, mentre la sabbia era diventata solo leggermente rosata. Caddi a terra, imbrattandomi i già imbrattati pantaloni con altra sabbia fresca e umida. Dovetti usare tutta la mia forza fisica per rimettermi in piedi. Sarebbe stato difficile raggiungere i miei compagni. Sempre se c’erano ancora, da qualche parte. Sentivo di essere solo al mondo.
Mi arrampicai a fatica sugli scogli aguzzi e viscidi. Inciampai un paio di volte, mi rialzai, risalii. Arrivai in cima, sulla strada. C’erano bussolotti ovunque. Solo li mi venne in mente Fritz. Quando mi ero svegliato, lui non c’era più. Ripensai alla visione del giorno prima. Stavo male, non potevo aver visto quello che credevo di aver visto. Fritz era come me, e con le sue gambe se ne era andato. Sperai solo che non fosse stato preso prigioniero. Non avrei potuto liberarlo, almeno che non avessi voluto finire davanti al plotone di esecuzione, come traditore.
Camminai non so per quanto tempo, stremato, affamato, sfiancato dalla febbre e dai brividi. La sete era diventata insopportabile. Le labbra mi bruciavano, come il viso e la fronte. Sembrava stessi impazzendo. Poi incontrai un uomo, un soldato, un americano. Mi sentii di nuovo vivo.
– Ehi amico – urlai. – Sono qui –
L’uomo si girò e mi guardò. – E tu da dove sbuchi? – domandò – Da dove vieni? –
– Io…io ero su Omaha, ieri. Ti prego, dammi qualcosa da bere –
Sbiancò. Forse credeva fossi un fantasma. Poi rise di sollievo: non ero un fantasma. Mi porse la sua borraccia. Bevvi d’un fiato. L’acqua fresca spense lentamente l’incendio che avevo in gola.
– Ehi fratello, fai piano o ti strozzerai –. Mi guardò meglio, vide la mia ferita. – Tu sei ferito, stai male. Come ti chiami? –
– Sergente Patrick O’Brien, 116° reggimento 29° divisione di fanteria. Ero nella compagnia A quando siamo sbarcati, ieri mattina –
– Sarà meglio che tu venga dal comandante –
L’uomo si chiamava Joseph Lucas. Era sbarcato insieme alle ultime compagnie. Disse che i nostri avevano stabilito il loro quartier generale in un paesino francese a pochi chilometri dalle coste. Colleville. Erano rimasti in pochi e si erano fermati in attesa di altri ordini. Quasi tutti erano sfiniti, molti feriti, altri quasi moribondi. Di quelli che si erano salvati dallo sbarco, parecchi erano morti durante la notte, a causa delle ferite. Lui era stato fortunato, mi disse. Era sceso per ultimo, quando il peggio era passato. La resistenza andava scemando. Era stato ferito di striscio ad un braccio, ma stava già bene. Io lo ascoltavo, senza capire bene. La febbre mi stava bruciando le viscere e il cervello. Non mi ressi più in piedi. Fu lui che mi venne in aiuto. Mi passò un braccio attorno alla vita e mi sorresse, fino a destinazione.
Arrivammo in paese che io non ero quasi più cosciente. Era inutile portarmi dal comandante, disse. Non sarei stato in grado di fare ne dire niente. Mi fece appoggiare al muro sgangherato di una casa colpita da una bomba. Sparì in una casupola di legno costruita di fretta e furia. Uscì poco dopo, accompagnato da un ufficiale con il camice bianco: un medico militare. L’uomo, alto, magro, sulla trentina, mi scrutò con occhio fermo. Mi tastò la fronte e il polso.
– In infermeria – disse solo. Venni disteso su una barella e portato attraverso stradine strette e dissestate. Non ricordo dove fui condotto. Il dolore era troppo forte, la febbre altissima. Svenni, prima di arrivare a destinazione.
VII.
Rimasi per cinque giorni in preda a una febbre aggressiva e rabbiosa. Il mio corpo venne svuotato da ogni segno di vitalità. Non mangiavo, facevo fatica a bere. Ero sempre arso di sete. Il braccio mi faceva sempre male. Le fitte diventano a volte insopportabili, a volte sembrava non ci fosse più dolore. Nei brevi momenti di lucidità, vedevo una donna avvicinarsi al mio letto, medicarmi la ferita, parlarmi dolcemente in francese. Un’infermiera del posto. Una crocerossina. Poi tutto ripiombava nel silenzio ed io ritornavo preda dei miei incubi e dei miei deliri.
Poi, una mattina, mi svegliai con leggerezza. Le palpebre non pesavano. Mi guardai in giro, notando che le immagini erano nitide e vive. Ero in una stanza bianca, odorosa di alcool e cloroformio. C’era un altro letto oltre al mio. Vi giaceva un ragazzino di circa dodici anni, raggomitolato su se stesso. Dormiva pesantemente. Appesa ad un armadio c’era la mia divisa. Era pulita, senza traccia di sangue ne sabbia.
Scesi dal letto, cauto. Le gambe mi reggevano. Andai alla finestra, l’aprii. L’aria era frizzante e tiepida, un bel sole brillava in cielo. Le strade brulicavano di militari americani e di passanti. Sembravano felici, leggeri. Giovani donne si avvinghiavano alle robuste braccia di soldati. Ridevano, parlavano. Ne udivo le voci allegre.
Il mio stomaco cominciò a brontolare insistentemente. Avevo una fame da lupi. Il ragazzino che c’era nel letto di fronte a me si mosse. Mi vide, spalancò gli occhi, saltò giù dal letto e si mise a correre per i corridoi dell’edificio, dicendo qualche cosa in francese che non compresi. Poco dopo arrivò una ragazza vestita di bianco. Aveva un viso candito e paffuto. Sorrise e mi disse: – Tu stai bene, adesso –
VIII.
La ragazza si chiamava Cosette. Aveva sedici anni e viveva a Colleville fin dalla nascita. Aveva visto i tedeschi arrivare, una notte. I suo genitori avevano nascosto lei e sua sorella nello scantinato. Era stato quello che le aveva salvato la vita. I tedeschi entravano nelle case, mettevano tutto in disordine, portavano via le persone. Cosette, dal suo nascondiglio sotto terra, vedeva soltanto gli stivali neri e lucidi dei militari tedeschi, udiva le loro grida simili a latrati di cane, le urla delle persone, i colpi di artiglieria. Quando uscì dal suo nascondiglio, per strada c’erano solo vecchi e cadaveri. Non rivide più i suoi genitori, ne seppe mai che fine avevano fatto.
Rimasi a letto ancora per qualche giorno. La febbre altissima mi aveva sfibrato ed ero ancora molto debole. Ricevetti la visita del comandante, che mi fece numerose domande riguardo l’accaduto. Gli raccontai quello che voleva sapere. Lui fu felice di sapere che mi ero salvato e che ero ancora utile per altre spedizioni. Mancavano uomini e noi dovevano avanzare. La guerra non era finita.
– C’era qualcun altro con lei? – mi domandò all’improvviso.
Rimasi spiazzato. Dovevo dirgli di Fritz, del nemico a cui avevo salvato la vita? Pensai che non fosse il caso. Risposi quindi di no e il comandante fu soddisfatto.
Ripartimmo dopo qualche giorno, in un alba rossa e triste. Cosette era li, ferma sulla porta dell’infermeria. Mi guardò. – Te ne vai? –
– Ritornerò, seulement pour toi –. Lei sorrise.
IX.
Penetrare in Francia non fu facile. I tedeschi non si arrendevano. E ci attaccavano, con estrema forza d’animo. Sfondare le linee “nemiche” fu duro, atroce, mostruoso. Ci aiutarono i partigiani francesi, quelli scampati alle rappresaglie tedesche. Come in Normandia, la gente cadeva come mosche. Gli americani, i francesi, i tedeschi. Ad ogni chilometro, decine di morti. Guardare quei visi giovani, le cui vite spezzate in tenera età. Alcuni soldati tedeschi non avevano nemmeno diciotto anni. Ormai non sapevano più mandare nell’esercito per tirare avanti. Ancora un po’ e ci ritroveremo a combattere contro le donne e i bambini, scherzò un mio commilitone. A me non andava di scherzare. Era ora di finirla con questa carneficina. Era ora di porre fine a questo sfacelo. Era ora di finirla di morire in nome di ideali viziati, di una guerra senza valori. Ma io non ero nessuno per poter cambiare il corso degli eventi. Solo una goccia d’acqua dolce in un oceano salato.
Attraversammo
Rimasi a Parigi per un po’ di tempo, d’istanza insieme ad altri soldati americani. La popolazione era allo stremo, soffocata dai tedeschi, privata della dignità, in preda alla paura e allo sconforto. Scrissi lunghe lettere a Cosette, con l’aiuto di un civile francese che aveva studiato in America. Lei mi rispondeva prontamente, ed io ero felice. Le cose al suo paese andavano bene. Qualche giovane che era stato portato via dai tedeschi era tornato. Sua madre era tornata indietro. Era fuggita da un campo tedesco. Era magra come un chiodo. Cosette era sicura che non si sarebbe ripresa. Infatti morì poco dopo, di consunzione. Fu uno degli ultimi colpi di ascia sulla mia testa. Ormai mi ero abituato all’orrore, ma non abbastanza per smettere di piangere, di notte, per Martin.
Un pomeriggio di pioggia il nostro comandante venne a dirci che dovevamo andare. Le frontiere con
Era una mattina di sole. Faceva caldo per essere primavera. Davanti a noi si presentò un cancello in ferro battuto, delle torrette, dei camini, del filo spinato. Un campo di concentramento nazista. Buchenwald si chiamava. Non c’erano tedeschi, erano scappati da qualche giorno. Entrammo, trovandoci davanti a delle carcasse umane bianche e spente. Prigionieri. Erano quelli che stavano meglio, che erano in grado di camminare e procurarsi quel poco cibo che era rimasto. Ci vennero incontro esultato e piangendo, urlando di gioia. Parlavano una moltitudine di lingue che era impossibile comprendere. Ci prendemmo cura di queste persone, tramutate in animali e sballottante di nuovo nella realtà umana. Sarebbero stati in grado di riprendere a vivere la dove avevano smesso?
In infermeria c’erano molti malati. Difterici, dissenterici. Giacevano immobili, avvolti in sudice coperte puzzolenti, accanto ai cadaveri. Cadaveri scheletriti e bianchi come la carta, uno sopra l’altro, come un mucchio di rottami. Erano a centinaia, migliaia. Erano ovunque: nei crematori, nelle strade, nelle baracche. La puzza che emanavano mi salì rapidamente alle narici, facendomi vomitare. Nessuno, tra i nostri, sapeva che fare, cosa dire. Neanche le lacrime volevano uscire dai nostri occhi increduli.
Furono giorni pesanti. Scavare fosse comuni, gettarci i corpi sfatti. Non finivano mai. C’erano più morti che vivi. Molti dei sopravvissuti si aggiunsero a loro, nei giorni seguenti. Uomini, donne. Non possedevamo medicine adatte per curare i loro mali. Molti morirono per il troppo cibo, a cui non erano più abituati. Altri, invece, perché non avevano più voglia di vivere, ne di lottare. Così era morto un ragazzino ungherese. Fino all’ultimo aveva guardato fisso il soffitto dell’infermeria, aveva rifiutato il cibo e l’acqua. Si era lasciato andare, in preda ad un’apatia e una tristezza sconosciuta a noi “esseri umani”.
Il duro lavoro aveva assorbito le mie energie fisiche e mentali. Solo dopo alcuni giorni mi ricorda di Franz. Lo cercai affannosamente tra i superstiti che giacevano mezzi morti nei letti del campo di accoglienza della Croce Rossa. Non sapevo che faccia avesse ne se era ancora vivo. Chiesi ad un’infermiera italiana di istanza nel campo. Lei si fece leggermente pensierosa, poi si dileguò dietro una tenda. Tornò poco dopo, in compagnia di un uomo magro e gonfio, mal rasato, con addosso una divisa a righe sporca di fango e sangue.
– Lui è Franz von Müller – mi disse. – Mi raccomando, non lo stanchi troppo: è ancora molto debole –
Rimanemmo per qualche minuto a fissarci l’un l’altro, senza parlare. Poi lui fece la prima mossa. – Chi sei? – mi domandò, in perfetto inglese.
– Un soldato americano. Devo parlarti –
Mi seguì in una baracca poco distante. Gli offrii una zuppa di carne e verdura, che mangiò con calma, quasi fosse un cibo prelibato. Gli chiesi molte cose, sul campo, sui tedeschi, sulla sua vita nel lager. Fu sbrigativo, conciso, truce. Non voleva parlare molto, ne io avevo voglia di ascoltare altri orrori.
Finita la sua zuppa, mi rivolse uno sguardo colmo di curiosità. – Come sai di me? – domandò. – Non mi pare di conoscerti –
– E’ stato tuo fratello a parlarmi di te e del fatto che eri rinchiuso a Buchenwald –
– Mio fratello Fritz? –
– Certo, proprio lui –
Alzò gli occhi, sorridendo. Il suo viso incavato ricalcava la forma del suo teschio. – Che cosa c’è? –
Si era seduto qualcuno accanto a noi. Mi voltai e vidi il volto sorridente di Fritz. Vestito come l’ultima volta, quando l’avevo visto. Ma era passato quasi un anno! – Fritz, ti vedo bene! –
– Anche io vedo bene te. Sono contento tu arrivato e preso cura di mio fratello. Adesso posso finalmente andare –
Accadde ancora, come quella notte nella grotta. La sua immagine si fece evanescente e sparì. Stavolta, però, ero lucido. Il cuore batté forte nel petto. Mi alzai, tremando. Stavo per mettermi ad urlare. Franz mi prese la mano, dicendomi che era tutto a posto. Era sereno, ma quello che era successo…taibhse. Allora non avevo sognato. Lo lasciai seduto sulla sua panca e me ne andai. Taibhse, ripeteva la mia mente.
Passai gli altri tre giorni seduto sul mio letto, a pensare, a pregare. Avevo perso totalmente il contatto con la realtà. Il sole si alzava e poi scendeva, e poi si rialzava. Sempre così. Le voci che sentivo si facevano flebili e acute, vispe e tristi. Davanti a me sfilavano ex prigionieri e soldati, ma io non li vedevo. Volevo solo svegliarmi da quell’incubo, che mi sembrava ogni giorni più irreale.
Franz mi venne a salutare, prima di tornare a casa. Si era ripreso in fretta. Mi strinse la mano, sorridendomi. Torno a casa, disse. Non so se troverai ancora una casa, dissi io. Pazienza, la ricostruirò.
– Porta un fiore sulla tomba di Fritz da parte mia, quando andrai a trovarlo –
Franz perse il sorriso. – Fritz non ha una tomba. Non hanno trovato il suo corpo. E spero non lo trovino. Mi piace immaginarlo così com’era, come lo hai visto anche tu. Non potrei sopportare la vista di un corpo mutilato o carbonizzato –.
Franz se ne andò, con passo traballante. Lui, a differenza del fratello, è ancora vivo.
Ricevetti finalmente il congedo. Non c’era più bisogno di me. La guerra era finita, trascinandosi dietro una scia immensa di morti e di disperati. Non sapevo se erano più fortunati i morti o i vivi. Perché chi era sfuggito alle bombe, ai lager e alle pallottole era comunque stato distrutto dalla guerra. Io invece ero solo una piuma pronta a farsi trascinare dal vento.
Presi la mia roba e me ne andai. Mi accompagnò un mio commilitone su di un camion. Le ferrovie erano inagibili. Arrivai a Colleville, presi Cosette e ci preparammo per tornare a casa. Sarei tornato in America. Mi avrebbero visto come un eroe, anche se ero solo un povero ragazzino distrutto. Il giorno prima di partire, tornai ad Omaha. Lanciai un mazzo di fiori sulla spiaggia, per i miei compagni caduti, per Martin, ma soprattutto per Fritz. Lui non avrebbe avuto una tomba, ne onorificenze. Il nemico che mi aveva salvato la vita, anche se troppo tardi per salvare la sua. Rimasi qualche istante a guardare la spiaggia, poi le voltai le spalle. E me ne andai, per sempre.
See ya! :-)[1] Come ti chiami
[2] partito di sinistra tedesco, abolito da Hitler negli anni ’30.
[3] Sterminio di popolazioni
[4] Fantasma, gaelico irlandese
5 comments:
Oh mamma mia! :-O
Sempre commenti di un certo spessore!
ehhh si... ho avuto modo di constatare anch'io...
Che dire? Mi e' piaciuto. Sono ripetitivo forse, ma mi e' piaciuto.
La ricostruzione storica appare molto realistica, seppur in parte ovviamente romanzata. I personaggi protagonisti, anche se a volte con poche parole, vengono introdotti in maniera efficace ed immediata, facendoli subito apparire come conosciuti agli occhi del lettore. La storia non e' di certo leggera, ma e' molto piu' narrativa e meno metaforica rispetto ad altre che hai scritto e che ho letto, e questo non e' di certo un dramma: i messaggi che il testo trasmette sono chiari e molteplici, ma al tempo stesso si narra una storia che affascina e coinvolge, senza rischiare di stancare o di apparire eccessivamente "predicativa" (e non voglio dire con questo che le altre appaiano cosi', sia chiaro).
Non dovresti minimizzare questo genere di narrativa piu' "sciolta": a volte una storia scorrevole, anche irrealistica, riesce ad offrire maggiori significati e ad essere maggiormente compresa dal lettore rispetto ad un saggio o comunque una storia piu' rivolta al contesto reale. Perche' resta maggiormente impressa, offre maggiore impatto nella mente del lettore. Un po' come Cristo che preferiva esprimersi in parabole invece che in termini diretti.
Un esempio?
Avrai certamente gia' letto "La sentinella" di Fredrick Brown:
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato,faceva d'ogni movimento una agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia d'anni quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della Galassia ... crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava all'erta, fucile pronto. Lontano cinquantamila anni luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a case la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti col passare del tempo s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no.
Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle di un bianco nauseante, e senza squame.
@Francis: e' un piacere "incontrarti"! :D
Cacchio, sei riuscita di nuovo a farmi riflettere e venire i brividi... Sono semplicemente senza parole per descrivere la bellezza di questo brano. Ed il messaggio che trasmette...
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