Thursday 21 June 2007

ANCORA E SEMPRE RACCONTI

Credo che ultimamente questo blog stia diventando un pò troppo personale. Dedico troppo spazio alle mie cazzate e un pò meno ai fatti seri. E che ultimamente non me la sento molto di scrivere di cose serie, anche se mi sforzo il più possibile. Tanto, i visitatori sono quelli che sono e la cosa non mi turba.
Ho deciso stasera di pubblicare un altro raccontino fresco fresco di giornata (iniziato ieri e finito oggi). Non è granché, anzi diciamo che è addirittura banale. Forse meglio di così non riesco a fare, ma mi sforzo comunque. A nessuna casa editrice verrà mai in mente di pubblicare mio materiale, quindi mi limito a scrivere per il mio piacere, per sentirmi meglio, per evadere da un mondo che fa ogni giorno più schifo. Anche se i miei racconti sono la fotocopia della mia rabbia conto ingiustizie assurde.
Il titolo riflette perfettamente l'immagine qui sopra postata.

L’IMMIGRATO

I.

Aveva attraversato le sabbie del deserto insieme ad altri sventurati, senza mai guardarsi indietro. Provava un forte senso di terrore, ogni volta che si voltava. Sentiva ancora le urla strazianti degli uomini, donne e bambini che venivano scannati e maciullati dai diavoli a cavallo.

Non riusciva più a dormire. Ogni volta che chiudeva gli occhi immagini insanguinate gli percorrevano la mente. E allora rivedeva sua madre, straziata da un colpo di macete. Sentiva le urla dei bimbi del suo vicino, mentre venivano gettati nel fuoco. O ancora le grida di aiuto della piccola Amina, figlia quindicenne del suo migliore amico, mentre in venti abusavano di lei, prima di straziarla finalmente con un colpo di lama.

Ogni volta che pensava a quello che aveva passato nel suo paese gli veniva da piangere. Ma o il caldo del deserto africano o il suo dolore troppo forte, le sue lacrime si erano prosciugate.

II.

Era arrivato al nord, dopo giorni di marcia in mezzo al deserto. Aveva contato i morti che erano stati lasciati dietro ed aveva perso il conto. Aveva le labbra aride e i piedi piagati, le mani secche come mummie e il corpo disfatto. Si sentiva addosso una stanchezza infinita e ancora non capiva come facesse ad essere ancora in piedi, o meglio ad essere vivo. Ma finalmente aveva visto il mare. Una barca li attendeva. Avrebbero attraversato il Mediterraneo, destinazione Italia. Li, lo sapeva, avrebbe avuto una vita migliore. Un lavoro. Si sarebbe potuto riscattare.

Mentre saliva su quel barcone tutto arrugginito insieme ad altri centinaia di disperati, sentiva ancora le urla nere della sua gente e le risate insanguinate dei carnefici corrergli dietro, quasi non volessero lasciarlo andare.

III.

Forse ingenuamente si aspettava un’accoglienza minore. Si, è stato proprio un ingenuo. Lui, che ne aveva passate di tutti i colori e solo per pura fortuna era sfuggito alla morte.

Appena arrivato in Italia, e già lo hanno rinchiuso in una strana struttura insieme ad altri sventurati. Ha cibo, acqua, un letto. Ma tutto è strano. Gli sguardi di quella gente. Anche se all’apparenza sembrano non esprimere rabbia né odio, sente nei loro occhi un pungente sentimento di fastidio. E si rende conto che, se fanno quello che fanno, è solo per obbedire ad un dovere morale che trascurerebbero volentieri. Perché è dovere dei buoni cristiani aiutare gli sventurati, anche se questi poi sicuramente gli si rivolteranno contro.

Rinchiuso in quella struttura, gli è impedito di uscire. Sa pochissimo l’italiano. Lo ha imparato prima che l’inferno si scatenasse sulla sua testa. Con quelle poche parole che sa, chiede spiegazioni. Riceve solo vaghe risposte. Che ne sarà di me? Dove mi manderanno? Ora sono in Italia, avrò un lavoro, vero? Ma tutte queste domande rimangono senza risposta.

Due giorni in quel rifugio. Impossibile scappare. È prigioniero in quello che credeva il paradiso terrestre. Niente macete, niente sangue, niente stupri, niente barbarie. Solo occhi ostili, che percuotono, trapassano, distruggono, come lame roventi.

IV.

È un marocchino di venticinque anni quello che gli dà la notizia. Parlando uno stentato italiano, gli dice che lo rimanderanno nel suo paese.

- Ma io…asilo politico!-

Quello ride. Niente asilo politico. Ti rimanderanno nel tuo paese. A meno che…

Fuggono lui e altri tre in una notte senza luna e fredda come sarebbe nemmeno in grado di descrivere. Tagliando la rete di recinzione, in pochi minuti si ritrovano liberi, una libertà pesante da sopportare.

Un amico italiano li aspetta con un furgone. Andranno al nord dove l’amico italiano ha dei contatti. Potrà lavorare, avere uno stipendio, una casa.

- Fidati di me!- dice l’italiano.

Le porte del paradiso si sono riaperte.

V.

Viene presentato ad un uomo alto e grasso, che l’italiano dice si chiami Ernesto. È un milanese di cinquantacinque anni, e fa il capomastro. Ha bisogno di uno schiavo, oops, un lavorante per il suo cantiere. E l’amico italiano gli presenta Alì, quello che viene dal Darfur.

- Bene, lo stipendio è di 700 euro al mese. Tutto in nero. Vedi di non farti male perché io non rispondo di niente-.

Alì parla male l’italiano e annuisce pur non avendo capito bene di che cosa si stia parlando. Ma sente 700 euro, soldi, tanti per lui, e la cosa gli sta bene. Non ha ancora capito che in Italia, con quella cifra, si muore di fame.

Inizia a lavorare in un cantiere di provincia. 700 euro al mese, senza protezione di ogni genere. Vive in una topaia che divide con altri immigrati. Non è il massimo. Ma almeno lavora. Ha una casa. E vive.

VI.

Da quando Alì lavora con loro, il cantiere è in fermento. Non che si definiscano razzisti. Anzi, secondo la loro prospettiva di gente per bene non lo sono affatto! Ma si sa, come fidarsi dopo tutto quello che si sente in giro?

Il telegiornale e i giornali lo dicono quasi tutti i giorni. Rapine, scippi, spaccio, violenze sessuali. E sono sempre loro i colpevoli. Un omicidio su tre è commesso da un immigrato. Se lo dice la televisione bisogna crederci. E del resto quasi nessuno in quel cantiere si permetterebbe mai di dubitare dei giornalisti della televisione.

Durante la pausa pranzo, i muratori si radunano in un gruppetto e confabulano tra di loro.

- Ma… da dove viene?-

- Boh! Mi hanno detto…Partur, Cianfur....-

- Darfur!-

- E dove diavolo sta?-

- Che ignorante che sei! È quella zona dell’Africa dove c’è la guerra!-

- Ah, capisco!- non sembra molto convinto.

Silenzio per qualche secondo. Si addenta il proprio pranzo. Ma è difficile rimanere in silenzio quando il tarlo del sospetto si insinua in mente.

- Ma…c’è da fidarsi?-

- Sai, quella gente…non per essere razzisti, ma…-

- Io non sono razzista! Anzi, io rispetto i negri come lui!-

- Io comunque mi tengo il portafoglio ben attaccato alla chiappa!-

- E poi bisogna stare attenti alle malattie. E se porta malattie?-

La pausa pranzo si consuma così, mentre occhi sospettosi osservano Alì da capo a piedi, e hanno timore a rivolgergli la parola.

Alì, dal canto suo, pur rendendosi conto di non essere ben accetto, lavora come un mulo. È libero, non deve aver paura della morte ogni secondo che passa. Lui sa benissimo che non è facile convincere la gente che non farai mai del male. Ma è sicuro della sua onestà. Questo è il massimo che possa fare.

VII.

È primavera ma la temperatura è molto alta per il periodo. Alì lavora al cantiere da ormai quattro mesi. Alcune cose sono cambiate, dal primo giorno. Purtroppo negativamente.

Se prima gli operai lo salutavano con freddezza, ora non si degnano nemmeno più di guardalo. Ora lui è il “nemico”. Tutto per colpa di una storiaccia di un mese prima, nella quale non c’entrava niente.

Era un giorno come tanti altri al cantiere. Si lavorava e si sudava. Poi all’improvviso il fermento. Era stato il Massimo (un giovane operaio calabrese di 35 anni, una moglie e quattro figli a carico, sempre in chiesa la domenica e tanto rispettoso della moglie da non permetterle di lavorare né di spendere un soldo senza il suo consenso) a lamentare una perdita. Non trovava più il portafoglio.

- Ma lo hai cercato bene?- aveva domandato serio Ernesto, il capomastro. – Guarda meglio nella giacca, nelle tasche interne?-

- Mi prendi per minchione? Certo che l’ho fatto. Niente-

- Allora lo hai perso!-

- Impossibile! Io non perdo mai le cose!-

- E allora glielo hanno rubato!-

Il gelo era calato sul cantiere. Tutti si erano guardati in faccia, allibiti. Si conoscevano da tanto. Tutti si fidavano gli uni degli altri. Ma soprattutto, quel cantiere era in piedi da un anno e non ci erano mai stati dei furti. Quindi, ovvio, se non era stato uno dei soliti operai doveva essere stato uno nuovo. E gli unici due nuovi erano Camillo, un ragazzo bergamasco, e naturalmente Alì. Tutti furono unanimi a dare la colpa al giovane africano.

Lo avevano prelevato di peso dalla sua postazione e lo aveva scaraventato malamente contro un muro.

- Che c’è?- aveva domandato, tremante.

Quegli occhi gli facevano paura. Se prima lo scrutavano silenziosamente, ora erano puntati su di lui. E lo fissavano, freddi, inquisitori.

- Dove lo hai messo il portafoglio?-

- Cosa?-

- Hey, negro, non fare il finto tonto! Solo tu puoi essere stato! Solo tu puoi avere fatto una cosa simile, perché sei nuovo e perché…-

…e perché sei uno sporco negro di merda, stupratore, terrorista e ladro, aveva pensato Ernesto. Si era scoperto razzista. Ma la cosa non lo turbava. Aveva ragione lui. Quella gente era inaffidabile. Gente che viene da altri paesi, si installa senza ritegno in un paese civile e pretende di farla da padrone. Non era tollerabile. Lui aveva lavorato onestamente per tutta la mentre quelli li, pensava con rabbia, ottengono tutto e subito.

- Tira fuori quel portafoglio o sarò costretto a cacciarti!-

Il gelo si era impadronito di Alì. Ed era caduto ai piedi degli occhi ostili, in ginocchio e con gli occhi bassi.

- Io fatto niente. Non cacciare via me. No so che fare. Io non rubo, io buono. Io lavoro!-

- Ma stai zitto!-

- Io non rubo!-

- Fa la commedia!-

“L’interrogatorio” era durato un ora. Alì si era pure preso un sonoro schiaffone da Massimo, che pesava 120 chili ed aveva due mani come badili.

Alla fine il Massimo, dopo essere andato in macchina un secondo, aveva ritrovato il portafogli. Non era stato rubato.

Nessuno ha avuto il coraggio di scusarsi con Alì. Non sarebbe stato giusto, avevano pensato praticamente tutti. Non si potevano umiliare di fronte ad un extracomunitario e dire “mea culpa”. Anzi, la cosa li aveva addirittura incattiviti nei suoi confronti. Ed avevano deciso di stargli più lontani.

VIII.

Lo osservano sempre, Alì. E molte domande gli frullano in testa. Che vita faceva prima di venire in Italia? Avrà famiglia?

La loro totale ignoranza sulle condizioni del Darfur non gli può permettere di capire che lì, la famiglia, è difficile tenerla in vita, e non certo perché non lo si vuole. Quindi la loro poca fantasia aveva cominciato a galoppare.

Il Massimo, prima di tutto, si è messo in testa che quello lì, che è musulmano, dove avere almeno cinque o sei mogli a casa sua. Si sa, pensa, quelli li ne sposano tante. Si immagina sempre una grossa stanza piena di donne nude incatenate. E Alì che entra, imperiale, ne raccatta una, la sbatte per terra e la stupra senza pietà. Poi la picchia fino a farla sanguinare e la lega ancora al muro. Povere donne, pensa, le trattano come bestie. Basta guardare cosa fanno i talebani. Io, la mia Concetta, non l’ho mai maltrattata. Si vabbé, uno schiaffo ogni tanto, ma mai a certi livelli. Del resto alla televisione se ne sentono di cotte e di crude. Quella ragazza pakistana uccisa dal padre perché era troppo occidentale? E quante ancora? Che roba! Sempre loro, sempre loro…

Il capomastro ha ben altri pensieri. Ha paura che faccia qualche cavolata. Insomma, sa che quella gente li si fa saltare in aria. Ma alla fine, perché farsi esplodere in un cantiere? Beh, non ha paura che quel negro si faccia saltare per aria lì. Ma…e se il suo lavoro è solo una copertura? Il marocchino che lo ha raccomandato al suo amico Gianni non gli è mai piaciuto. E se stesse tramando qualcosa?

Ha paura e non può negarlo. Vorrebbe cacciarlo via. Ma ha più paura del suo amico marocchino, che ogni tanto si fa vedere in zona. Non vuole guai. E se poi lo accoltella? E se segue sua figlia mentre torna a casa e poi la violenta per vendetta?

Ah certo, sua figlia. Deve dirle di non venire più al cantiere. Con quello li nei paraggi, non si sa mai.

IX.

Annamaria. La figlia di Ernesto.

È una ragazza di ventitrè anni che studia sociologia alla Cattolica di Milano. Non ama molto quel posto, pieno di ipocrisia e di falsità, e ci va solo quando deve sostenere gli esami. Per non farsi troppo mantenere dai suoi genitori (benché suo padre vorrebbe) fa qualche lavoretto ogni tanto.

Lo ha incontrato un giorno, mentre stava venendo a prendere suo padre. Lui non si faceva vedere, doveva essere andato a chiacchierare al bar di fronte con i suoi operai. Ma Alì, lui, era li. Stava tornando a casa, con la sua bicicletta scassata di cui nessuno conosceva né la storia né il precedente proprietario.

- Sai dov’è mio padre?- gli aveva domandato.

- No so- aveva risposto lui, timidamente.

Aveva paura a farsi vedere con lei perché sapeva chi era. Una volta Ernesto aveva mostrato agli altri una foto della figlia, lodandone la bellezza, e lui l’aveva sbirciata per caso. E visto che, dopo la faccenda del portafoglio, gli altri si erano raggelati con lui, non voleva altri guai. Già sapeva cosa lui avrebbe pensato: che aveva intenzione di farle del male. Ma come poteva lui fare del male ad una donna dopo che aveva visto la sua promessa moglie brutalmente violentata da cinque uomini e uccisa senza pietà? Ricorda ancora le sue urla, e ogni volta sono sciabolate al cuore. Chi ha visto certe cose, mai si sognerebbe di riproporle sul corpo di un altro innocente. Perché la gente non capisce?

- Come ti chiami?- gli aveva chiesto.

- Alì-

Aveva fatto per andarsene ma lei lo aveva fermato.

Avevano parlato per mezz’ora. Per la prima volta da quando era in Italia, un essere umano lo guardava con cortesia e gli parlava con dolcezza. Le aveva raccontato la sua storia, mentre cercava di trattenere le lacrime. Lei lo aveva ascoltato, e poi aveva detto:

- Mio padre non è cattivo. È solo ignorante. Non ha nemmeno la licenza media e sa a mala pena scrivere. Crede a tutto quello che i telegiornali dicono e non si fida di internet. Cerca di capirlo, per favore. -

- Lui non mi vuole bene-

- Non credo sia veramente capace di odiare. È solo diffidente. Io non posso garantirti se cambierà idea, ma sappi che non siamo tutti così-

Si era guardata in giro, poi aveva ripreso:

- Siete dei capri espiatori. Nessuna società è perfetta, e non ho ancora capito perché i bianchi si sentano superiori a tutti. E poi ci si mettono i media, a denigrarvi, a dipingervi come mostri, a storpiare quello che dite. Non è facile l’incontro con culture diverse, anzi è anche più difficile se qualcuno ne parla sempre in modo negativo-

Lui l’aveva guardata a bocca aperta.

- Forse tu non mi capisci bene, ed è comprensibile. Ma voglio dirti una cosa: non ti isolare mai. Cerca di integrarti il più possibile. È difficile, lo so, ecco perché ti voglio aiutare-

Gli aveva messo in mano un bigliettino bianco. C’erano scritte delle parole che faceva fatica a capire.

- E’ un’associazione di intermediazione culturale. Ti possono insegnare l’italiano e anche come muoverti in questo paese. Vacci pure, e fidati!-

La voce del capomastro lo aveva costretto ad andarsene di corsa.

Si era messo a pedalare di buona lena, mentre tutto davanti a lui si faceva sfumato e un liquido caldo gli bagnava il viso.

Piangeva di felicità.

X.

È un caldo e afoso pomeriggio di fine luglio. Di li a pochi giorni inizieranno le vacanze estive. Nessuno ha più tanta voglia di lavorare con quella calura. I più si immaginano già al mare, mentre nuotano nel mare azzurro. Tutti, in quel caldissimo pomeriggio di fine luglio, vorrebbero essere ovunque tranne che in quel cantiere rovente. Il calore insopportabile, la voglia di vacanze fanno si che siano più svogliati e distratti del solito.

Un urlo rompe i loro pensieri. Poi un tonfo. Tutti corrono a vedere cosa è successo. Lo trovano lì. Alì, steso per terra, in una pozza di sangue. È caduto dal ponteggio del terzo piano.

È immobile, mentre il sangue scorre come un fiume in piena sul terriccio, formando un grumo fangoso sanguinolento.

- Oh…è crepato?- chiede il Massimo.

- Ma va!- dice Ernesto. – Questi qui hanno la pelle dura!-

Tutti però si rendono conto che Alì è troppo immobile, ma soprattutto sembra non voler riprendere conoscenza.

Dopo dieci minuti, è ancora steso a terra, immobile. Allora il panico si diffonde tra gli operai.

- E’ morto!-

La frase si diffonde a macchia d’olio sulle bocche di tutti. Il calore di quella giornata estiva viene smorzato dal gelo della paura.

- E adesso che facciamo? Avremo guai, lo so!-

Il cantiere non è proprio a norma. Mancano le più elementari misure di sicurezza. I muratori mettono il casco, ma ad Alì non l’avevano mai dato. Ernesto si era rifiutato di darglielo perché sperava che lui se ne andasse. In quel momento si sente in colpa per essere stato tanto stupido.

Il gelo lo attanaglia. Se si venisse a sapere una cosa simile, pensa il capomastro, io vado in galera. Un operaio che muore nel mio cantiere, perché non gli avevo dato li casco quando dovevo darglielo. E per giunta un extracomunitario, sicuramente irregolare. Qui rischio non so quanti anni di prigione!

Si siede e si prende la testa tra le mani. Bisogna fare qualcosa. Portarlo all’ospedale, dire che non era nel cantiere e che si era fatto male da un’altra parte. Ma il suo nome figurava tra gli operai. Non ci avrebbero messo molto a scoprire la verità.

Gli viene voglia di piangere. Comincia a pregare. Tutto attorno a lui si fa confuso e spaventoso. Forse è un incubo, pensa. Adesso mi sveglio, vado a lavorare e do una bella pacca sulla spalla ad Alì. Perché è un bravo ragazzo e non mi ha mai dato problemi. L’ho sempre giudicato male e ho capito di avere sbagliato.

Purtroppo non è un sogno e il corpo di Alì giace per terra, esangue. Allora Ernesto di mette a piangere di fronte a tutti.

- Senti Ernesto io ho un’idea!-

È Massimo. Si è seduto accanto a lui e gli sta dando delle pacche amorevoli sulle spalle.

- Che idea?-

Ormai non c’è molto da fare. Ogni consiglio è ben accetto.

- Adesso gli fasciamo la testa così non sanguina più. Poi lo carichiamo di nascosto sulla mia macchina e lo scarichiamo in un bosco. Se non è morto qui non possono accusarci di niente!-

Per il capomastro quell’idea criminale arriva come un fulmine a ciel sereno.

Accetta senza pensarci su, anche perché non ha altre idee migliori. E poi non è colpa sua, alla fine. Non è stato lui a gettarlo giù da quel ponteggio.

Eppure il suo cuore è gonfio e non riesce assolutamente a metterlo a tacere.

XI.

Lo portano più lontano possibile dal centro abitato. I passanti vedono solo una vecchia Uno color amaranto con a bordo due tre uomini: due davanti e uno dietro. Quello davanti è piuttosto giovane e guida con disinvoltura. Quello di fianco e quello di dietro hanno sui cinquant’anni. Tornano dal lavoro. Nessuno sospetta di quello che si nasconde li dentro, sdraiato malamente sul sedile posteriore.

Sono stati abbastanza attenti a far si che la testa oleosa di Alì non sporchi, con il suo sangue, il sedile posteriore. Hanno quindi coperto il sedile con una cerata, che poi laveranno tranquillamente, facendo sparire ogni traccia.

Guidano per solo venti minuti, che per loro sembrano vent’anni. Ogni movimento li spaventa. Gli occhi guizzano a destra e a sinistra, cercando di vedere il più lontano possibile. Sanno benissimo che sulla statale, ogni tanto, si ferma una volante dei carabinieri. E sanno che ogni tanto fermano qualche macchina. Se dovessero fermare loro, con un cadavere a bordo, sarebbe la fine di tutto.

Per fortuna nessun carabiniere in vista. Con quel caldo, pure loro se ne sono stati chiusi in centrale.

Quando arrivano al boschetto predestinato tutti tirano un sospiro di sollievo.

Lo scaricano in un posto molto isolato, che conosce bene Ernesto, dove non passa quasi mai nessuno. Il sangue ha finito di colargli dalla testa, e una grossa ferita troneggia davanti ai loro occhi. Alì è più immobile che mai, e nessuno ha il coraggio di avvicinarsi alla sua bocca, per sentire se respira ancora. Massimo ci aveva pensato, ma il solo pensiero di vedere quei grossi occhi bovini aprirsi lo ha fermato. E se si svegliasse improvvisamente e gli mangiasse via un orecchio?

- Buttalo qui- dice Massimo

- Aspetta, i documenti- precisa Ernesto.

- E perché?-

- Prendiamogli documenti e soldi. Così si penserà ad una rapina finita male!-

- O a un regolamento di conti tra connazionali- precisa Luigi, il vecchio muratore veneto. Era stato il primo a porre il veto per l’assunzione di Alì.

Lo riversano in un fosso e lo voltano. Gli sfilano il portafoglio dalla tasca e gli prendono soldi e documenti. Poi gettano il portafoglio tra le sterpaglie.

- Che ne facciamo dei suoi documenti?-

- Li bruciamo-

- Viene dal Sudan! Tu avevi detto che veniva dal Darfur!- dice Massimo.

- Brutto ignorante il Darfur è una regione del Sudan-

- Si quella dove si ammazzano- conclude Luigi.

- Capisco-

Quello che dovevano fare lo hanno fatto. Non gli resta che andarsene. Il capomastro però si ferma un attimo e gli dice di andare avanti.

- Che devi fare?-

- Pipì-

- E non puoi farla dopo?-

- Mi scappa adesso-

Massimo sospira e va avanti.

Perché ha deciso di stare li a guardarlo? Non lo sa nemmeno lui. Strani sentimenti gli si affollano in petto. Non sa nemmeno come definirli.

In quell’istante sente di amarlo. Di un amore paterno e profondo. Sente di aver perso un figlio con cui era stato troppo ingiusto. E adesso è troppo tardi per recuperare.

Piange più che può senza riuscire a smettere. Non è colpa mia, si giustifica, non è colpa mia. Io non volevo che lui si facesse male. Non era mia intenzione.

Quando smette di piangere guarda il volto immobile di Alì. Viene colto da un terrore cieco e irragionevole. Lui è lì, immobile, pronto a tornare dal mondo dei morti per tormentarlo. È lì, che fa finta di essere morto. Adesso gli salterà addosso e lo ammazzerà con quelle sue grosse mani callose!

Ernesto sa che li vicino che un piccolo campo coltivato. In mezzo al campo, un capannone degli attrezzi. Corre più che può verso quel capannone, ci entra, preleva una vanga. Ritorna indietro, con le gambe che gli tremano. Affonda la vanga nella terra e più velocemente che può ricopre il volto e il corpo del povero africano.

Quando ha finito è coperto di sudore e terra. Ansima pesantemente. Sembra che l’aria non voglia entrare nei suoi polmoni. Un dolore violento al petto, come una sciabolata. Il respiro si fa più affannoso. Deve andare via da quel posto orrendo.

Torna indietro barcollando.

- Allora hai…Ernesto!-

Perde i sensi tra le braccia del suo muratore preferito. L’ultimo pensiero è per Alì.

Quando arrivano all’ospedale più vicino è ormai troppo tardi. È morto, stroncato da un infarto.

See ya! :-(

2 comments:

Anonymous said...

Questo racconto è semplicemente meraviglioso... sto ancora piangendo calde lacrime di dolore,rabbia, impotenza...

Anonymous said...

Non posso che essere concorde con Mony76: il racconto è semplicemente meraviglioso.
Reale, tristemente, tremendamente, assolutamente reale. Reale e privo di speranza come la realtà è tale per troppa gente.

Mi fa ridere amaramente pensare che qui in Italia noi spesso ci lamentiamo di mancanza di libertà o perdita di speranze per cose sciocche, stupide, idiote...
Mi fa vergognare di essere italiano e bianco pensare che al mondo vi sono milioni, migliaia di Alì che arrivano in Italia, anche e spesso laureati, per finire nel migliore dei casi come nel tuo racconto, se non molto peggio. E magari non sono semplicemente dei disperati, sono dei disperati laureati in medicina che sono giunti in Italia grazie all'indebitamento completo delle loro famiglie, nella speranza di guadagnare tanto da mandare soldi a casa. E magari sono anche medici migliori dei nostri, medici più competente, medici più umani, che non dimenticherebbero una garza dentro la pancia di qualcuno anche quando quel qualcuno gli dice "Dottore, io ieri ne ho contate due ed oggi ne ha tirata fuori solo una..." lasciando così rischiare la setticemia al paziente lasciando passare più di tre giorni prima di accettare (non lui, un collega) il fatto che magari cazzo ha ragione la paziente. Ma noi medici bianchi sappiamo tutto... mentre i medici neri è già tanto se li facciamo essere muratori, che tanto i neri sono buoni solo a costruire piramidi.

Tristezza... assoluta tristezza, sconcerto, rabbia.

Quando riavrò la mente lucida e riposata (lunedì mattina magari), se non ti da fastidio vorrei tanto dedicare una riflessione nel mio blog su questo tuo stesso racconto...

E spero davvero di vederlo pubblicato un giorno. Merita di esserlo, anche e soprattutto nel momento in cui non l'hai scritto per tale ragione ma per il desiderio e la sincerità dell'amore per la scrittura e della rabbia per l'argomento.