Sunday 1 July 2007

QUASI FINITE!



Lo giuro, sono quasi finite! E poi, forse, per un pò non se ne vedranno più!
Questa addirittura risale al 1955 (forse una delle poche superstiti della grande distruzione di quell'anno).
Questa è invece ambientata a Londra. Naturalmente coordinate geografiche e luoghi sono di pura fantasia...e se ci ho azzeccato...vuol dire che di secondo nome faccio Nostradamus :-P

La porta accanto
(una storia di Fantasmi)

Il quartiere di Notthing Hill, signorile ed elegante, distava solo un miglio da quello squallido quartiere popolare. Le uniche cose che si potevano vedere erano il grigiore dei palazzi diroccati, i sacchi dell’immondizia sventrati dai cani randagi e barboni ovunque.

Il palazzo dove io e mia sorella eravamo riuscite a trovare un appartamento adatto alle nostre tasche si trovava sulla destra della via. Era una vecchia costruzione vittoriana, con l’intonaco scrostato e le porta d’ingresso rovinata. La proprietaria, una certa signora Collins, era una vecchia irlandese rozza ma simpatica, che non sopportava chi sputava per terra e non mancava mai di prendere a scopate in testa chi lo faceva. Ci aveva fatto un prezzo di favore, essendosi commossa nel vedere due ragazze giovani sole al mondo. “Non preoccupatevi”, ci aveva detto. “Se per un mese non potete pagare l’affitto, non fa niente. Per qualsiasi cosa, fate pure affidamento su di me”.

Era il meglio che potevamo permetterci. Due mesi prima i nostri genitori erano morti in un grave incidente stradale e ci avevano lasciate da sole con una montagna di debiti da pagare. Non avendo soldi, eravamo state costrette a lasciare la casa che avevamo prima, per una sistemazione più economica.

“Voglio solo una cosa”, dissi, “andarmene via da qui”.

“Ti prego non infierire anche tu Lucy”, mi ammonì mia sorella Claudia, “lo sai che è il massimo che possiamo permetterci. Cosa credi che a me piaccia abitare in questo tugurio? Ma lo sai benissimo che non abbiamo soldi, e con il mio modesto stipendio...” si interruppe, cercando di non piangere.

Povera Claudia. Lavorava da poco presso una ditta di import export ed aveva uno stipendio da fame. Non sapeva neanche se avrebbe potuto tirare la fine del mese. Io andavo a scuola e non percepivo alcun stipendio. Inoltre, i miei libri costavano. Facevo qualche lavoretto, ma il mio compenso era appena sufficiente per comprarmi qualche stuzzichino e i quaderni di scuola.

La signora Collins ci accompagnò al nostro appartamento: il 34b, in fondo al corridoio. Ci consegnò le chiavi, sfoderando un sorriso accattivante. “Questo è il migliore appartamento di tutto lo stabile”, disse, “forse lo troverete un po' in disordine, ma niente che una bella pulita non possa fare”.

Si defilò rapidamente giù per le scale, canticchiando una canzone irlandese. Quando mia sorella aprì la porta, per poco non svenni. E quella vecchia furbacchiona aveva il coraggio di dire che era solo un po' in disordine! Sul pavimento ci saranno stati non so quanti strati di polvere, le finestre erano più grigie dello smog di Londra e una miriade di escrementi di topo incorniciavano finestre e angoli.

“Mio Dio, voglio andare via!”

Non so come ci riuscimmo. Fu un miracolo. In un pomeriggio di lavoro rendemmo quella topaia un ambiente confortevole. Lavammo i vetri, che subito ritornarono trasparenti, i pavimenti, i mobili. Lo schifoso odore di chiuso e di urina di gatto lasciò il posto ad un buon odore di disinfettante.

“Claudia, sei una maga”, dissi, “questo si che è un miracolo!”.

“Ma il merito è anche tuo. Da sola non ce l’avrei fatta”.

Quella sera mangiammo frugalmente. Solo un sandwich con pollo e maionese e un po' di insalata. Avevamo dato fondo ai nostri risparmi con il trasloco. Per fortuna il giorno dopo Claudia avrebbe percepito lo stipendio.

“Senti, secondo te, quando finirà questo momentaccio nero?” domandai all’improvviso. “Insomma guarda: non abbiano neanche i soldi per una cena decente”.

Claudia sospirò.

“Non ne ho la più pallida idea. Io lavoro da poco, e i soldi sono quelli che sono. Forse ci vorranno mesi, magari anni, prima che la situazione migliori. Ma non dobbiamo farci prendere dallo sconforto: papà e mamma non lo avrebbero voluto”.

Parli bene tu, pensai. Ero io che ero in un momento critico. Avevo tredici anni e tanta voglia di uscire e divertirmi con le mie amiche, magari facendo shopping. Ma non avevo i soldi nemmeno per comprarmi un pacchetto di gomme da masticare! E così mi toccava rimanere a casa, per non fare brutta figura. Povera me!

Verso le dieci andai a letto. Ero stanca morta. Claudia rimase ancora un po' davanti alle sue carte di lavoro, dicendomi che mi avrebbe seguito a ruota. Preparai lo zaino per il giorno dopo (lunedì), e mi infilai nel mio letto caldo. Guardai fuori dalla finestra. Nella casa dove vivevamo prima potevo vedere il cielo stellato dalla finestra della mia camera. In quel buco dimenticato dalla civiltà potevo scorgere soltanto i muri anneriti e scrostati del palazzo di fronte. Se fossi stata più piccola avrei pregato Dio perché mi aiutasse a migliorare la mia vita. Ma avevo smesso di credere a Dio da molto tempo ormai...

Che cos’era quel frastuono che proveniva dall’appartamento accanto? Due persone che litigavano molto animatamente. Aprii gli occhi di controvoglia e guardai la mia sveglia: le tre del mattino. Ma chi erano gli sconsiderati che si mettevano a litigare a quell’ora, quando di solito tutti dormono?

“Basta cazzo!” urlai, picchiando contro il muro con la mia ciabatta. “Qui c’è gente ce dorme”.

Niente da fare. Quei due continuavano a litigare come se niente fosse accaduto. Picchiai ancora due o tre volte, ma invano. Mi rassegnai, quindi, a una notte insonne: ma prima avrei scoperto chi erano i disturbatori notturni. Il giorno dopo ne avrei fatto presente alla signora Collins. Aveva detto che dovevamo solo chiedere e sarebbe stato fatto! Avrei visto se avrebbe mantenuto la promessa, quella simpaticona!

Con l’orecchio appiccicato al muro, mi misi in ascolto. Lo so che non è corretto, ma ero veramente curiosa di conoscere il motivo di quella disputa.

Erano un uomo e un donna. Lui sembrava ubriaco, urlava ingiurie e bestemmie di tutti i tipi, sbatteva porte e picchiava i pugni (o almeno credo) sui mobili. Lei piangeva disperatamente, rinfacciandole il suo matrimonio e la sua tranquilla vita in Irlanda. “Se vuoi, puoi anche tornartene in quella tua fottuta isola di pecorai, per quanto me ne importa”.

“Non osare parlare in quel modo, lurido bastardo ubriacone”, imprecò lei, “tu...tu”. Pianse ancora.

“E vattene! Ma che me ne frega a me! Insultami se vuoi, mica mi spaventi!”

La donna cominciò ad urlare. Poi sentii dei rumori. La stava picchiando! O era lei che picchiava lui. Boh! E chi ci capiva qualcosa. Adesso le bestemmie si mischiavo con le urla di rabbia di lei, le sue maledizioni e i suoi rimproveri.

Un tonfo. L’urlo dell’uomo. I suo i passi avanti e indietro. Credo.

“Mio Dio, che cosa ho fatto?” Iniziò a piangere. “Tamara, rispondimi ti prego, dimmi qualche cosa. Signore no, dimmi che non è morta! Non volevo! Mi stavo difendendo! Non volevo!”

Morta? L’aveva ammazzata? Bisognava chiamare la polizia! Ma chi avrebbe creduto ad una ragazzina di tredici anni? Avrebbero pensato ad uno scherzo, ed io ci avrei fatto la figura dell’idiota.

Mi balenò per la testa un’idea più che assurda. Ancora oggi, a distanza di dieci anni, penso che sia stata la più grande sciocchezza della mia vita. Ma, se non fosse stato per quella mia bravata, quello che venne alla luce sarebbe ancora li, a giacere in un mare di sporcizia e topi in putrefazione.

Prendendo tutto il coraggio che avevo mi infilai le pantofole, la vestaglia ed uscii di casa. Nel pianerottolo la temperatura era quasi polare. Potevo vedere una piccola nuvoletta bianca formarsi ogni volta che respiravo. Con il cuore che mi batteva all’impazzata e i denti che battevano come un martello pneumatico (per il freddo però), bussai alla porta dell’interno accanto. I miei colpi rimbombarono a vuoto, come se l’appartamento fosse completamente deserto. Ma sapevo che non poteva essere possibile. Quello che avevo sentito non l’avevo certo sognato!

“Mi scusi, signore, ha forse bisogno d’aiuto?” domandai, con voce tremante.

Lo so, sembra assurdo dire una cosa simile, sapendo benissimo quello che era successo. Ma non mi veniva in mente assolutamente niente. Ero troppo spaventata. E se mi avesse fatto del male?

“Signore, dico a lei, ha bisogno d’aiuto?”.

Nessuna risposta. Stavo quasi per tornare indietro, con la forte convinzione di aver sognato, quando sentii uno scricchiolio sospetto. Mi voltai e la vidi: la porta era spalancata. Dunque c’era qualcuno. Che fare? Entrare o chiedere aiuto? Li dentro c’era uno che aveva appena ucciso una persona, che fare, dovevo rischiare la pelle pure io?

Non ci pensai su due volte. Entrai, noncurante di quello che mi sarei sicuramente trovata davanti. Com’era fredda quella casa, e sembrava abbandonata da anni. Le finestre erano rotte e gli stralci di tende rimasti ondeggiavano sinistramente davanti ai miei occhi spaventati. I mobili erano rotti, stracci per terra, sedie rovesciate, una bottiglia sbeccata. Tutto, li dentro, faceva pensare ad una vera e propria lotta. Ma non era possibile un deserto simile.

Non so che cosa accadde di preciso dopo. Avvertii solo una forte folata di vento gelido ed un sibilo strano. Non credo fosse così, ma per un attimo mi parve un lamento soffocato, come di qualcuno bloccato dietro ad un muro che chiede aiuto. Inutile dire che scappai via più veloce della luce, mi richiusi la porta alle spalle e mi infialai a letto, con la testa sotto le coperte. Non chiusi occhio per tutta notte.

Il giorno dopo un violento acquazzone mi colse fuori dalla scuola. Naturalmente non avevo l’ombrello. Si era rotto cinque giorni prima e non avevo trovato il tempo (e i soldi) per acquistarne uno nuovo.

Corsi come una disperata dalla fermata dall’autobus, che distava ben mezzo miglio dal mio quartiere, fino al palazzo dove abitavo, in mezzo a sporcizia, barboni e altra gente. E poi c’era chi osava lamentarsi degli immigrati! Erano cento volte più puliti di certi inglesi!

Quando finalmente entrai in portineria, ero da strizzare. La signora Collins, intenta a pulire le scale, mi vide e mi offrì una coperta calda e una tazza di tè. “Figliola, non dovresti andare in giro senza ombrello”, mi ammonì, “guarda come piove”.

“Se avessi avuto l’ombrello, l’avrei sicuramente usato”, risposi, con una punta di sarcasmo. “Il problema è che si è rotto e non ho ancora avuto il tempo per comperarlo”.

La vecchia mi sorrise amorevolmente, poi riprese a pulire il grigio pavimento della hall. Era di buon umore. Il momento giusto per ventilargli i fatti avvenuti nella notte. Lei era la padrona, sicuramente conosceva i suoi inquilini. E avrebbe fatto sicuramente qualche cosa. O almeno, speravo!

“Senta signora”, iniziai, “chi abita nell’interno accanto al nostro?”

La signora si fermò per un attimo, rivolgendomi uno sguardo divertito. “Cara, quell’appartamento non è abitato da ben vent’anni ormai”, ripose tranquilla. “Ho provato ad affittarlo, ma tutti gli inquilini se ne andavano nel giro di ventiquattro ore, spaventati. Nonostante le mie domande, non mi hanno mai dato risposte esaurienti riguardo la loro paura. Credo che fosse a causa dei topi. Ho provato a derattizzare, ma non è servito a nulla”.

Quella si che era bella! Non mentiva, ne ero sicura. Allora...

“Mi scusi, un’altra domanda: chi abitava l’appartamento venti anni fa?”.

“Mah, una giovane coppia proveniente da Bath. Una notte, mi ricordo benissimo, si sono sentiti dei rumori fin troppo molesti che hanno svegliato l’interno condomino. Erano persone strane: lui era un ubriacone impettito, mentre lei era una ragazza irlandese laboriosa e volenterosa ma non era certo una santa: si sapeva benissimo che se la faceva con tutti, nel quartiere. E poi sembrava avesse problemi di droga. Mah! Comunque, dopo quel gran casino, ho sentito sbattere la porta e poi sono scomparsi. Scommetto che è stata tutta una finta per non pagarmi l’affitto. Ma se li riprendo…” si interruppe, cominciando a strofinare il pavimento con più energia.

La ringraziai per il tè e la coperta e tornai nel mio appartamento, per cambiarmi e asciugarmi.

Quella storia era veramente strana. Troppo strana per essere vera. Io avevo sentito quelle voci, i colpi, le grida. Non me le ero sognate. Possibile che l’appartamento a fianco fosse abitato da fantasmi? Certo, l’ipotesi era veramente assurda, fuori da ogni logica. Però, pensandoci meglio, per quale motivo gli altri inquilini dell’appartamento scappavano dopo sole ventiquattro ore in preda al panico? E senza dare spiegazioni plausibili poi. Non potevo credere che dei topi potessero spaventare a tal punto. In fondo, quelli da appartamento sono solo dei piccoli, innocui roditori. Un po' fastidiosi forse, ma pur sempre incapaci di far veramente del male. Basta un colpo di scopa ben assestato, e il gioco è fatto. Si, c’era sicuramente sotto qualche cosa di grosso, qualche cosa che nemmeno la padrona conosceva.

Dovevo indagare, capire che cos’erano quei rumori. Perché, se non avevo sognato, qualcosa era veramente accaduto. E dubito che due persone, anche se ubriache o drogate, occupino abusivamente una casa per una notte solo per fare casino. E poi, da dove potevano essere entrati se la porta dell’ingresso di notte è chiusa a chiave? Che avessero la chiave? E anche quella dell’appartamento?

Dopo essermi fatta una doccia ed essermi infilata un paio di jeans scoloriti ed un maglione bucato, uscii sul corridoio. Nessuno era in circolazione a quell’ora: erano tutti al lavoro.

Mi avvicinai alla porta, analizzandola meglio. La maniglia, così come la serratura, erano arrugginite. La porta invece, di legno scadente, era scolorita e graffiata da unghie di gatto. Evidentemente i tre gatti della signora Collins amavano farsi le unghie li! Girai il pomello, notando che la porta era chiusa a chiave. Questo si che era strano! La notte prima si era praticamente spalancata davanti ai miei occhi! La paura e il dubbio si insinuarono in fretta nella mia mente. E se…

Estrassi una forcina dai miei capelli e cominciai a forzare la serratura, che scattò senza alcuna difficoltà. Spalancai la porta, provocando un fastidioso cigolio. Tutto li dentro era come la notte precedente. La stessa finestra rotta, lo stesso pavimento sporco, gli stessi mobili, le stesse sedie rovesciate.

“Questo prova che non ho sognato”, dissi. “Adesso devo scoprire se quello che ho sentito erano veramente dei fantasmi oppure no. Dio mio, credo che nel mio cervello ci sia stato un cortocircuito!”

Che cos’era quel rumore? Ancora quel sibilo soffocato, come una debole richiesta d’aiuto. Fui tentata ancora di scappare, chiudermi quella porta alle spalle per non entrarvi più, ma non potevo. Quello che avevo sentito, sicuramente, era qualcuno che chiedeva aiuto. Succede così, a volte. I fantasmi rivivono gli ultimi attimi della loro vita e ti invitano ad assistervi per poi aiutarli. L’avevo letto da qualche parte. L’unica cosa che mi chiedevo era: perché proprio a me? Ma soprattutto, esistevano veramente i fantasmi o ero io che ero completamente pazza?

Il debole rumore proveniva dalla parete destra della stanza. Contro vi era un vecchio armadio marcio e rovinato dal tempo. Con enorme fatica, riuscii a spostarlo abbastanza per poterci passare dietro.

Effettivamente, qualche cosa di strano, oltre ai rumori, c’era. I mattoni del muro li dietro erano diversi. Sembravano più nuovi. Formavano una specie di nicchia, e sembravano essere stati messi li di fretta. La calce era tutta colata e tra mattone e l’altro c’erano degli spazi vuoti, dai quali proveniva un odore nauseabondo.

C’era qualcuno dietro di me. Ne avvertivo chiaramente la presenza. Mi voltai, trovandomi di fronte ad un uomo magro, emaciato e vestito in modo a dir poco pietoso. Teneva nella mano destra una bottiglia di scotch vuota.

“Si, è colpa mia! Non volevo, te lo giuro! Ma lei, quando si arrabbiava, era violenta. Mi picchiava! Tu non hai idea di che vergogna, per un uomo, essere picchiato dalla propria donna! Non ce la facevo più. Dovevo reagire! Le ho dato solo una martellata. Non ero in me. Non volevo colpirla in testa. Magari romperle un braccio. Volevo essere io il più forte, per una volta. Ne avevo sopportate tante. Mi tradiva con tutti. Io…io…”

Si accasciò per terra, cominciando a singhiozzare.

“Non ti basta avermi portato alla morte? Non ti basta avermi tormentato per vent’anni? Perché continui a farmi questo? Ti ho già chiesto scusa. Lo sai che ti ho sempre amato. Lasciami in pace almeno da morto!”.

L’uomo si alzò e, guardandomi con i suoi occhi pieni di dolore, mi spinse contro il muro. Questo cedette, facendomi cadere nella nicchia. Urtai qualche cosa di duro. Quando mi voltai per vedere che cos’era, me ne pentii amaramente: li, al mio fianco, giaceva uno scheletro.

Aprii gli occhi, ritrovandomi nel mio letto. Accanto a me c’era mia sorella Claudia, con il viso sconvolto. “Mio Dio, ma come hai fatto?” mi domandò. “Come hai fatto a trovarla?”.

“A trovare chi?”. Non ricordavo molto di quello che era accaduto. Solo un gran spavento.

“A ritrovare il corpo di Tamara Kennedy, dopo ben vent’anni”.

Continuavo a non capire. Mia sorella mi accompagnò nel corridoio, dove trovai la signora Collins con un rosario in mano e degli agenti che portavano via un fagotto avvolto in un sacco nero.

“Signore, se avessi saputo!” sussurrò. “Ora capisco il perché di quella scomparsa”.

I fatti si erano svolti più o meno così. Venti anni prima, in quella casa abitavano una certa Tamara Kennedy con suo marito Osvald. Questi era un ubriacone, che beveva e giocava a carte tutto il giorno, perdendo tutto lo stipendio di sua moglie. Lei, una donna energica e anche violenta, non mancava di alzare le mani contro di lui, magrolino ed emaciato. Il giorno della sua morte Osvald era più ubriaco del solito. La colpi con un martello, ammazzandola (così aveva detto quel fantasma e così aveva detto l’autopsia). Preso poi dal rimorso e dalla paura, nascose il corpo della moglie in una nicchia che aveva scavato nel muro e se ne andò, facendo perdere le sue tracce.

Questo è tutto. Da quanto ne so, quell’individuo si suicidò pochi giorni dopo, in una squallida pensione fuori città. Forse era stata lei a vendicarsi, a farlo impazzire, a tormentarlo anche da morto. E forse, anzi sicuramente, l’uomo che avevo visto era il suo spirito.

Dopo di allora, non ebbi più a che fare con i fantasmi. Dopo tre anni, morì un nostro vecchio parente, che ci lasciò in eredità molto denaro e una bella casa nel quartiere vittoriano. Ed è li che adesso vivo, insieme a mia sorella. Mi sono laureata e lavoro presso un’azienda londinese. Insomma, faccio una vita tranquilla. E spero di continuare a farla. Non amo avere a che fare con i fantasmi!

aprile 1995

See ya! :-P

1 comment:

Anonymous said...

L'ho gia' detto e mi ripeto, a costo di diventare monotono: hai classe per le Ghost Stories, risultando capace di scriverle senza scendere nel banale (cosa molto difficile per il genere) e riuscendo a caratterizzare perfettamente i personaggi, includendo poi nelle storie sempre qualche messaggio. Mi dispiace che tu abbia smesso di scriverle e, soprattutto, che l'archivio si stia esaurendo... non mi dispiacerebbe poter leggere altre di queste storie, perche' sono veramente veramente veramente piacevoli ed appassionanti.

Secondo me dovresti ripensare al fatto di non scriverle piu': non dico che devi lasciare perdere le storie o le poesie a sfondo sociale a cui ti stai dedicando ora, ma affiancare le une alle altre non credo farebbe male. In fondo rilassarsi un poco ogni tanto e' necessario e doveroso!

P.S. "Questa addirittura risale al 1955..." ehm... una storia fantasma?? :D