Wednesday 4 July 2007

ULTIMO RACCONTO! :-D


Eh già, questo è veramente l'ultimo. Forse ce ne sono ancora, persi tra i meandri oscuri del mio hard disk e dei miei floppy quasi inutilizzabili. Chissà! Ma credo sia meglio così...veramente! lol
Adesso pubblicherò solo storie più "mature". Perchè, onestamente, io sta storia mica l'ho capita! Ma che significa? Ma che mi ero fumata quando l'ho scritta? LOL Si, ecco, mi sono sputtanata: quando ero adolescente avevo una certa passione per un certo "fumo". No woman no cry! lol
Comunque, ecco il racconto:

MORTEM PESTILENTAE

“Prevedo una settimana noiosa”, lamentò Jannifer, sfogliando una rivista di cui capiva solo poche parole. “Avrei preferito rimanere a Milano. Almeno avrei potuto girare per negozi. Che cosa ci facciamo in questo posto sperduto in mezzo alle colline?”.

“Conferenza storica”, disse Mark, suo fratello. “Hai forse dimenticato che i nostri genitori, oltre ad essere italiani, sono anche dei professori universitari?”.

Come poteva scordarselo! Passavano molto più tempo in ateneo e sui libri che a casa. I due fratelli avevano dovuto imparare a cucinare da soli, pena morire di fame!

Jennifer e Mark facevano di cognome Maino. I loro genitori, nati e cresciuti in Italia, si erano trasferiti in Irlanda poco dopo la nascita di Mark. Il terreno era fertile per gli studiosi, e la paga era più alta che in Italia.

In quella tiepida e capricciosa primavera, i loro dotti genitori erano stati invitati ad un convegno il cui titolo era “Storia dell’Italia settentrionale dal Medioevo alla Controriforma”. Un titolo lungo, quanto il convegno. Naturalmente, essendo iniziate le vacanze di primavera, i genitori avevano pensato di portarli con se. Avrebbero imparato di più sulla storia che tanto odiavano, avevano detto.

Dopo una serie quasi interminabile di stradine in terra battuta, boschi anonimi ed immense distese di campi, i ragazzi arrivarono a destinazione. “Però, non male come posto!” commentò Mark.

Il luogo in questione era un vecchio castello medievale, di recente ristrutturato. Tutto intorno, un grande giardino decorato da una miriade di rose, piante da frutta e statue di marmo che raffiguravano antiche divinità. Un vero paradiso per gli occhi. Da poco era stato trasformato in un albergo, sempre affollatissimo. La vita stressante di città spingeva molti turisti, soprattutto stranieri, a cercare un luogo dove passare qualche giorno in pace e tranquillità, lontano dai fumi tossici e dai rumori strazianti. E, in quel posto, pace e tranquillità abbondavano. Non un solo suono di clacson, né odore di gasolio bruciato. Solo aria fresca e il cinguettare dei passeri.

Appena entrati nella grande hall, si accorsero che nessuno parlava inglese. “Bene, siamo circondati da noiosissimi docenti universitari italiani”, commentò Jennifer.

“E qual è il problema? Noi lo sappiano l’italiano, no?”.

“Già, abbastanza per presentarci è chiedere l’ora!”.

“Forse tu”, disse Mark, “ma io sono anche capace di contare fino a cento!”.

“Oh mamma!”.

Il ragazzo si guardò in giro, esterrefatto. Tutto il soffitto era coperto da splendidi affreschi barocchi e rinascimentali, perfettamente conservati nei colori. “Mamma che meraviglia! Chissà chi ha abitato questo posto durante i secoli!”.

“Moltissime persone”, spiegò Jennifer, aprendo la sua guida turistica. “E’ stato una fortezza medioevale, una prigione ai tempi della Controriforma e l’abitazione di un certo marchese de Gaetani, morto senza eredi nel 1907. Dopo di che, il castello è passato nelle mani del demanio. Sembra, ma queste non sono che dicerie popolari, sia stato anche un quartier generale di Mussolini dopo l’armistizio del ’43.”

Quando alzò gli occhi dalla sua guida, notò che il fratello la stava osservando con gli occhi spalancati e la bocca aperta. “Hai detto prigione?” domandò eccitato. “Ma allora questo posto è interessantissimo!”.

“Mark non cacciarti nei guai!”.

Troppo tardi. Il fratello si era già avventurato alla perlustrazione delle altre stanze. Anche se, Jennifer lo sapeva, lo scopo di Mark era un altro: trovare le cantine. Appassionato com’era di antiche leggende popolari e misteri irrisolti, era sempre alla ricerca di qualche cosa di oscuro da scoprire. Conosceva tutto sui fantasmi irlandesi, nonché sulle assurde ed oscure leggende che circondavano la contea di Sligo, dove i loro genitori avevano comprato un cottage per le vacanze estive. Quando il sole tramontava, Mark prendeva la sua torcia elettrica e correva in giro per campi e stradine, nella speranza di incontrare almeno un lepricano. Il solito illuso, come pensava sempre Jennifer.

“Mark, ti prego, vieni qui!” lo chiamò Jennifer, “non conosci il posto: potresti perderti. E poi chi ti ha detto che il proprietario non abbia nulla da obiettare riguardo il tuo curiosare?”.

“Non preoccuparti, tuo fratello può andare ovunque”, rispose una voce maschile e squillante, “il castello è sicuro”.

Quell’uomo, dai modi gentili e che parlava perfettamente inglese, era il signor Guido Mainetti. Professore di storia medioevale all’università di Torino, era anche il proprietario del castello. Un uomo molto colto e facoltoso, che aveva fatto di quella vecchia fortezza il suo luogo di studio e di riposo.

“Mio fratello non ha intenzione di visitare le stanze”, spiegò lei, “ma di cercare le cantine. Da quando ha saputo che è stata una prigione, è completamente partito”.

“Beh, se il suo scopo è quello, perché ostacolarlo? Ci sono quattro livelli di sotterranei, di cui due visitabili. Sono colmi di mobili antichi e vecchi manoscritti: un posto interessante”.

Nel sentire quelle parole, Mark si precipitò nel corridoio. Ma come aveva fatto a sentire? Già, pensò Jennifer, quando si parla di cantine lui ha il super – udito!

“Perché gli altri due livelli non sono visitabili?” domandò il ragazzino, con gli occhi colmi di curiosità. “Vecchi misteri, cadaveri nascosti?”.

Mainetti rise. “Niente di tutto ciò. Semplicemente, i livelli non sono stati ristrutturati ed è pericoloso visitarli. Quindi, evita di avventurarti lì sotto”.

Il convegno sarebbe durato sette giorni. Ma già dopo due Mark e Jennifer ne avevano piene le scatole. Avevano visitato ogni angolo, ogni singola stanza di quel grande castello. La biblioteca era piena di libri scritti in italiano, che era per la maggior parte incomprensibile ai due ragazzi.

Avrebbero potuto uscire. Avrebbero, infatti. Quei giorni, neanche farlo apposta, soffiava un vento tanto gelido che sembrava di essere ripiombati in inverno. Lo si sentiva sibilare, ruggire, soffiare attraverso ogni finestra ed ogni fessura nel muro.

L’unica emozione, per così dire, era visitare i sotterranei, enormi stanzoni bui e umidi, colmi di oggetti interessantissimi. Si poteva trovare di tutto: da una vecchia sedia tarlata del tardo settecento a grossi tomi sgualciti risalenti a chissà quale periodo.

La sera del terzo giorno, Mark ebbe una folle idea: scoprire che cosa nascondevano i due livelli interdetti. Durante la pausa pranzo, cauto, era sceso di sotto ed aveva notato che un grosso armadio chiudeva l’ingresso al terzo livello. “Per fortuna non era molto pesante e sono riuscito a spostarlo”, spiegò. “Mi sono trovato dinnanzi una scala in marmo, stretta e lunga. Sembrava non avere mai fine”.

“Dunque, sei sceso dove non avresti dovuto”, commentò Jennifer, laconica.

“No purtroppo. Speravo di farlo stasera, insieme a te”.

“Scordatelo! Io non vado a rischiare l’osso del collo per un tuo capriccio”.

Mark rise. Accese la torcia elettrica, indirizzando il fascio luminoso su suo viso. “Ma non hai ancora capito? Quei due livelli non sono diroccati. Ci è stato impedito di scendere semplicemente perché nascondono qualche cosa di grosso che Mainetti non vuole che noi scopriamo. Che ne sai, magari li sotto ci sono nascosti gli scheletri dei suoi antenati!”

“Ma quali scheletri dei suoi antenati! Mainetti ha preso possesso di questo edificio solo tre anni fa!”.

“E che ne sai? Magari li ha fatti portare qui in gran segreto. Magari li venera come degli dei, o fa messe nere con i loro teschi!”.

“Dio mio, quanto sei stupido!” lo criticò. “Possibile che vedi misteri oscuri in qualsiasi luogo tu vada?”.

Mark assunse la tipica espressione del sapientone. “Ma non lo sai cara sorella? Non studi la storia? Il mondo è costellato di misteri e cose non dette. Hai mai sentito parlare del castello dei Borrough, poco fuori Dublino? Ebbene, è stato accertato che nelle segrete del castello ci siano ancora i corpi murati delle cinque mogli di William il Folle”.

“Balle!”.

“E di Loch Ness che mi dici? Sono in tanti a sostenere l’esistenza del famoso mostro!”.

Jennifer rise per tanta stupidità. Mark era proprio un fissato. La sua camera era tappezzata di poster di ufo, locandine di film dell’orrore, immagini macabre. Accanto all’armadio aveva anche appeso un poster con raffigurato un ufo e sotto la scritta “I want to believe”. L’anno prima era addirittura riuscito a convincere la nonna che, nella nuova casa dove aveva appena traslocato, percepiva delle strane vibrazioni. La povera donna si era talmente spaventata che, ancora adesso, aveva paura a dormire da sola in casa.

Mark appoggiò una mano sulla spalla della sorella, facendo lievemente pressione. “Allora Jenny, che hai deciso?”.

“Vengo con te”, disse, “non che io creda alle tue balle, si intende! Voglio solo controllarti, per evitare che tu faccia cavolate”.

“Bene!”.

Corse in camera sua, per tornare dopo pochi minuti con un’altra torcia elettrica. “Questa è per te”, disse, “così, se avrai paura, potrai scappare in libertà”.

Nonostante ostentasse sicurezza, Jennifer era inquieta. Non sapeva che cosa avrebbero trovato la sotto. Mainetti aveva l’aria di essere una persona molto cauta. Se aveva chiuso il passaggio al terzo livello, c’era sicuramente un motivo. Magari il pavimento era pericolante. Avrebbero potuto farsi del male. Ma ormai, chi era in grado di fermare Mark la minaccia?

Guardandosi in giro con circospezione, Mark spinse la maniglia della porta antipanico e scese in cantina, seguito dalla sorella. Arrivati in fondo, videro che non erano soli: altri tre uomini erano presenti. Chiacchieravano amichevolmente, guardandosi in giro con enorme stupore. Naturalmente non si accorsero di loro: erano troppo occupati ad ammirare le volte e a consultare vecchi e polverosi archivi storici.

Fingendo indifferenza, si avventurarono al secondo livello. Decisamente meno interessante del primo. Era solo un enorme stanzone polveroso, senza finestre, pieno di vecchie sedie. Ogni tanto, un topolino faceva capolino tra i rottami, con un pezzettino di formaggio ammuffito in bocca.

“L’armadio è alla tua sinistra”, sussurrò Mark all’orecchio della sorella, “se mi dai una mano, facciamo prima”.

L’armadio era così leggero semplicemente perché era rotto. Lo spostarono senza fatica, scoprendo una lunga scala a chiocciola, coperta di ragnatele e muffa. Un forte odore di umido proveniva da sotto, probabilmente a causa della chiusura forzata.

Per un attimo Jennifer sentì il suo cuore battere all’impazzata. Era stato quell’orrendo fetore a spaventarla. Rise tra se per la sua vigliaccheria. Come poteva un soffio d’aria viziata terrorizzarla? L’unica cosa che le poteva fare era farle girare la testa.

Il fratello accese la torcia, precedendola di qualche passo. Ormai era troppo eccitato per poterlo fermare. “Allora Jenny, vieni o no?”.

“Si, si arrivo!”.

Com’era stretta quella scalinata! Una persona leggermente soprappeso avrebbe fatto fatica a passare. Ma lei non aveva problemi: era sempre stata magra come un chiodo!

Finalmente arrivarono in fondo. Jennifer si trovò davanti un altro stanzone, più o meno grande come il primo. L’unica differenza era il soffitto: molto più basso. Poteva toccarlo senza difficoltà, alzando semplicemente il braccio. Provò un senso di oppressione al petto. Le sembrava di essere sepolta viva. Il fratello l’afferrò per il braccio, conducendola lungo un corridoio stretto ed impregnato da un forte odore di muffa e decomposizione. I suoi passi erano amplificati all’inverosimile, come se stesse camminando su un microfono. Da ogni angolo vedeva brillare degli occhi. Topolini forse. O anche ratti, che era ancora peggio. Quelli attaccavano e, se ti mordevano, potevi finire all’ospedale.

Finalmente arrivarono alla fine. Si trovarono di fronte una grossa porta in ferro battuto, tutta arrugginita. Essendo rotta la serratura, era stata chiusa con una grossa catena, alla quale mancava però il lucchetto. Jennifer provò ancora la strana sensazione che aveva provato prima. Forse era solo suggestione. Si, non poteva che essere così. Quel luogo, tanto lugubre, le metteva paura.

“Adesso questa bella porticina ci svelerà molti segreti”, disse Mark, sempre più eccitato.

“Senti, forse è meglio che non scendiamo…”

Troppo tardi. Mark si era già dileguato, lasciandola da sola. Che galantuomo! Che cosa poteva fare? Non poteva tornare indietro. Quel ragazzo era troppo incosciente per lasciarlo solo.

Prendendo un bel respiro e toccando la sua croce portafortuna, Jennifer si avventurò lungo la scala che conduceva fino all’ultimo livello. Sembrava non avere più fine. Ma quanto era profondo? Contò la bellezza di centoventi scalini prima di toccare il fondo.

All’improvviso, la torcia si spense, facendola piombare nel buio più totale. “Ma che diavolo succede?”.

Jennifer la colpì leggermente. La torcia si riaccese, per poi spegnersi dopo pochi secondi. “Maledetta me e il momento in cui ho deciso di seguire quel cretino di Mark”, imprecò, “e adesso che faccio? Quello stupido poteva almeno accertarsi che le batterie fossero cariche!”.

Tastando il muro, Jennifer si avventurò alla scoperta del nuovo, umido e puzzolente stanzone. O almeno credeva. Non riusciva a vedere niente.

Una luce, in fondo alla stanza. Ma era troppo fioca per essere quella di una torcia. Infatti era una candela. Forse l’aveva accesa Mark, per guidarla, perché sapeva del lieve ‘difettuccio’ della sua torcia.

Guidata da quella luce, la ragazza andò avanti, fino ad arrivare alla sua fonte. Ma dov’era il fratello? Non poteva essere tornato di sopra. Avrebbe sentito i suoi passi. Tastò i muri, alla ricerca di un passaggio segreto. Ma non c’era nessun passaggio!

“Mark, dove sei?” urlò. La sua voce echeggiò tra quelle vecchie mura ammuffite.

Cominciava ad avere paura. Che si fosse cacciato nei guai, come al solito? Si guardò in giro, rimanendo di sasso. Attorno a lei, strani congegni arrugginiti, mai visti prima. Il loro scopo, però, era chiaro: tortura.

Uno strano vento le scompigliò i capelli e le portò alle narici uno strano odore nauseabondo. La luce della candela traballò, ma non si spese. Si voltò, notando una cosa che non aveva visto prima. Un’enorme vasca in pietra. Era coperta di ragnatele e muffa, alta circa un metro e dieci e larga tre. Jennifer notò una strana scritta scolpita nella pietra: mortem pestilentae. Ma che cosa avrà voluto dire? Si avvicinò per vedere meglio, ma forse era meglio che non lo facesse. Quella vasca era colma di cadaveri. Erano di donne ,uomini, bambini. Buttati malamente l’uno sopra l’altro. Ecco da dove veniva l’odore.

Mille pensieri le si affollarono in testa. Da quanto tempo erano li? Il signor Mainetti ne sapeva qualche cosa? Erano forse loro il motivo della chiusura degli ultimi due livelli? Forse, per la prima volta nella sua vita, Mark aveva visto giusto.

Una mano si mosse, proprio davanti ai suoi occhi. Topi, probabilmente. Allora come mai non li sentiva zampettare, correre, addentare il loro fiero pasto?

Un rumore sordo, roco. La bocca di uno di loro si mosse, lentamente. Una cosa aprì le palpebre putrefatte e si guardò in giro, con orbite vuote. Jennifer indietreggiò, terrorizzata per quello che aveva davanti. Una ad una le cose si alzarono, barcollarono, camminarono nella sua direzione. Jennifer sentiva le loro voci corrotte dal tempo, roche, profonde. Rumori indistinti, suoni inarticolati. Qualcuno dei cadaveri perdeva pezzi di carne marcia, vermi mollicci colavano dai loro corpi.

“Non è vero, non è vero!” gridò.

Corse. Era l’unica cosa che poteva fare. Corse a perdifiato, senza meta. Le cose erano dietro di lei, la inseguivano, la volevano. Il terrore era ormai troppo forte per potersi voltare. Qualcosa l’afferrò, facendola cadere a terra. Lo sentì avvicinarsi, sentì il suo fiato putrido sul suo viso. Si liberò, si alzò corse ancora.

La candela si spense, misteriosamente. Adesso Jennifer era veramente perduta. Senza quella debole luce, non poteva sapere dove stesse andando. Ad ogni modo, era sempre meglio scappare piuttosto che farsi prendere dai “mostri”.

Il pavimento si era sollevato. No, erano i gradini. Jennifer li fece due a due, con il fiato corto e il cuore che martellava come un tamburo nel suo petto. I cadaveri sembravano non avere intenzione di fermarsi. Sentiva il loro passi trascinati su per le scale, veloci.

La porta di ferro, era davanti a lei. L’attraversò, chiudendosela alle spalle. Le non avevano intenzione di lasciarla andare. Premevano contro la porta, spingevano, con una forza troppo bruta per essere loro. Una mano riuscì a passare, afferrandole i capelli. Jennifer diede uno strattone violento alla porta, mozzandogli la mano. I colpi continuavano, la porta si stava aprendo: non avrebbe retto a lungo.

“Mio Dio, fai che se ne vadano, fai che io riesca a tenere la porta chiusa!”.

I colpi cessarono, all’improvviso. Tutto piombò nel silenzio più assoluto. Un silenzio rotto solo dagli ansimi di paura della povera ragazza. Jennifer si accasciò per terra, in mezzo alla muffa e alla polvere, quasi svenuta. I suoi capelli si erano appiccicati al viso a causa del sudore, come i suoi vestiti.

Si mise a riflettere. Qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi cosa avesse visto li sotto, non era normale. Forse era solo un’allucinazione, un brutto sogno. Il suo cervello era ancora troppo scosso per ragionare.

E suo fratello, dov’era finito? Lo aveva visto chiaramente scendere di sotto, e non lo aveva sentito risalire. E se le cose lo avessero catturato, gli avessero fatto del male? Avrebbe dovuto andarlo a cercare, ma tutto avrebbe fatto piuttosto che scendere ancora in quell’antro infernale.

Dei passi, umani. Non capiva da dove venissero, ma non erano lontani. Jennifer chiuse gli occhi e rimase immobile, come uno stoccafisso. Una mano le toccò la spalla, facendola urlare come una matta.

“Jennifer, calmati: sono io!”.

“Mark, ma…ma, da dove sei salito? Non…non ti ho visto!”.

“Tu piuttosto dov’eri finita? Quando solo tornato su dal quarto livello, tu non c’eri più! Ti ho cercata dappertutto! Sono perfino salito in camera tua!”

“Come dove sono finita?”. Toccò involontariamente il pulsante della torcia, che si accese subito. “Maledetta, adesso si mette a funzionare! E tu, perché non hai controllato se le batterie erano cariche prima di partire?”.

Mark la guardò stupito. “Ma che cosa stai dicendo? Guarda che le batterie sono nuove!”.

“E allora come mai si è spenta, così, all’improvviso?”.

“Boh!”.

Mark notò il profondo stato di turbamento nel quale si trovava la ragazza. Tremava come una foglia, respirava a fatica, era tutta sudata. “Jennifer, come mai sei in queste condizioni? Mi vuoi spiegare che cosa ti è successo?”.

“Mark, credo che stavolta tu abbia avuto ragione”, cominciò, “li sotto c’è veramente qualche cosa di spaventoso”.

“Come no! L’unica cosa spaventosa è il forte odore di marcio! Saranno secoli che nessuno arieggia. Le finestre c’erano, ma erano murate. Forse sono giunto ad una conclusione: i tre livelli sovrastanti, altri non erano che piani di una precedente costruzione. Probabilmente il castello è stato distrutto in passato, e nuovi livelli sono stati costruiti sui precedenti. I vecchi livelli sono quindi diventati dei sotterranei. Non hai notato che c’erano delle porte murate? Quelle erano stanze!”.

Jennifer non capì nulla di quello che disse il fratello. Il terrore sembrava non volesse andarsene. Il suo cuore batteva ancora più forte di un martello pneumatico. Cercò di rialzarsi, ma non ce la fece.

“Forse è meglio che ti accompagni in camera tua”, disse Mark. “Quando ti sarai ripresa mi racconterai che cosa ti ha ridotto in queste pietose condizioni.”

Mark l’accompagnò in camera sua, la fece sdraiare sul letto e le portò una bella tazza di camomilla. Jennifer bevve a fatica, ingozzandosi più volte. Il fratello la guardò costernato, incapace di capire che cosa avesse ridotto la sua “temeraria” sorella in una ragazzina tremante e spaurita.

Quando si fu ripresa abbastanza per parlare, Jennifer raccontò la sua terribile avventura. Non tralasciò nessun particolare, nemmeno quello della mano mozzata che cadeva a terra. Mark l’ascoltò con attenzione, stando attento a non perdere il filo di quello strambo discorso.

Mark non riusciva a credere alle proprie orecchie. Due resoconti completamente diversi. Lui non aveva visto nulla di spaventoso a parte la puzza, mentre lei gli aveva raccontato di quegli strani “zombie”. La torcia di Jennifer era posto, ne era più che sicuro, mentre lei aveva raccontato che si era spenta sul più bello. E di quella strana vasca in pietra colma di cadaveri? Lui non ne aveva visto la benché minima traccia. E se fossero state due stanze diverse? Mark si tolse subito quell’idea dalla testa: il corridoio era troppo stretto, e di porta di ferro ce n’era solo una.

Il ragazzo si sedette sul letto, con le braccia incrociate sul petto. “Forse hai avuto un’allucinazione”, sentenziò. “L’aria era sicuramente carica di anidride carbonica e poverissima d’ossigeno. Questo stato potrebbe aver causato nel tuo cervello uno stato di confusione”.

“E secondo te le allucinazioni lasciano questi segni?”. Sollevò la manica del suo maglione, mostrando un livido violaceo, appena sotto il gomito. Quel livido aveva la forma di una mano umana. “Da quanto ne so, le allucinazioni non lasciano alcun segno”.

Mark la guardò confuso, smarrito. Doveva essere sincero con se stesso: leggeva molti giornali strani, era appassionato di fantasmi e ufo, ma non ci aveva mai creduto veramente. Anche quando si era imbarcato in quell’avventura, l’unica cosa che voleva era una bella scarica d’adrenalina.

“Posso solo dirti che avevo ragione”, iniziò, “questo posto nasconde qualche cosa di oscuro. Non posso dirti con esattezza che cosa tu abbia visto. Non ho mai letto nulla del genere sulle mie riviste”.

“E, secondo te, che cosa possiamo fare?”.

“Domandare. Tartassare di quesiti il signor Mainetti. Lui è il proprietario, deve sapere a tutti costi qualche cosa. Gli chiederemo se esistono delle leggende sul castello, se in passato sono avvenuti dei fatti particolarmente cruenti. Solo in questo modo potremo fare delle congetture. Ora vai a letto, ne hai bisogno”.

Quella notte, Jennifer non chiuse occhio. Quello strano fatto di cui era stata protagonista la tormentava. Ogni minimo rumore la faceva sobbalzare, scambiava il fischiare del vento con le voci ululanti ed inumante di quegli schifosi resti. Anche l’innocente rumore dei mobili che scricchiolavano le provocava dei brividi freddi lungo la spina dorsale. Non sarebbe riuscita a rimanere in quel posto per altri cinque giorni. Sarebbe impazzita prima. Avrebbe trovato una scusa, e se ne sarebbe andata. Non pretendeva di tornare a casa, ma almeno di andare in un posto lontano da quel maledetto castello. Il ricordo di quei cadaveri, i loro volti putrescenti e le lo urla di dolore avrebbero accompagnato le sue notti per molto, molto tempo.

Il mattino seguente Jennifer si alzò pallida e affaticata, con gli occhi cerchiati da profonde occhiaie. Si vestì controvoglia, girandosi di tanto in tanto per controllare che non ci fosse nessuno alle sue spalle.

Scese in sala da pranzo per colazione, dove trovò il fratello intento a “sbranarsi” un’enorme fetta di pane e marmellata. Lei non avrebbe mangiato molto: il suo stomaco era sottosopra.

“Jennifer, hai forse dormito male?” domandò Mark, vedendola in quelle condizioni.

“Da che cosa si capisce?”.

“Hai delle occhiaie tanto profonde che faresti invidia ad un panda!”

“Spiritoso!”

In quel mentre entrò il signor Mainetti, allegro e con un’enorme pila di scartoffie sotto il braccio. “Buon giorno! Jennifer, non stai forse bene?”.

Mark le diede un’occhiata specifica, facendole capire che era il momento giusto per fare domande. Ma Jennifer non se la sentiva di interpellare Mainetti. Al solo pensiero, il suo cuore ricominciava a battere come un tamburo.

Fu Mark che prese l’iniziativa: “Signor Mainetti, mi permette una domanda?”.

“Tutto quello che vuoi!”.

“Che lei sappia, su questo castello gravano delle oscure leggende?”.

L’uomo lo guardò stupito. “Che cosa intendi dire con oscure leggende?”

“Ma non lo so, fatti oscuri, truci e sanguinosi. Morti inspiegabili, misteriose sparizioni”.

“Questa era una prigione dove venivano torturati e uccisi coloro che venivano accusati di eresia o stregoneria. Centinaia di persone sono morte tra queste vecchie mura. Ma non ho mai sentito parlare di strane leggende!”.

“Eppure la cosa è strana”, puntualizzò Mark. “E’ proprio sicuro che gli ultimi due livelli dei sotterranei siano inabili oppure ci vuole nascondere qualche cosa?”.

Mainetti fece finta di niente, come se la domanda del ragazzo l’avesse lasciato indifferente. Ma il suo volto, sbiancato improvvisamente, fece capire a Mark ben altro.

Bevve un sorso di tè. Mark notò che la sua mano destra tremava.

“Signor Mainetti, vuole rispondere o no alla mia domanda?”

“Non so di che cosa tu stia parlando”, rispose frettoloso, facendo enormi errori di pronuncia e grammatica. “Non c’è assolutamente niente li sotto: solo rovine.”

Bevve ancora il suo tè. Le sue mani tremavano sempre. “Ad ogni modo”, riprese dopo poco, “sarà meglio che voi due ve ne andiate da qui. È un posto noioso per due ragazzini. Vi manderò da una mia parente. Un paesino vicino a Casale Monferrato. Almeno potrete andare in città e fare un po’ di shopping. Quando il convegno sarà finito, i vostri genitori vi raggiungeranno”

Mainetti non disse mai nulla. Ad ogni domanda porta da Mark, lui rispondeva che erano solo sciocchezze, che li sotto non c’era niente, che doveva stare tranquillo e togliersi il castello dalla testa. Anzi, concluse, era meglio che loro due non fossero mai più tornati. Mai più, per tutta la durata della loro vita. Quella risposta lasciò i due spiazzati e confusi. Non ci avevano capito un bel nulla.

Quello stesso giorno, i due ragazzi lasciarono il castello. Vennero ospitati in un paesino di nome S., sulle colline del Monferrato. Presso una vecchia zia di Mainetti, una certa Angelina. Fu lei che raccontò loro la storia sul castello. Una storia difficile da comprendere, tutta in italiano.

Nel seicento, in Italia del nord, ci fu la peste. La peste descritta dal Manzoni nei “Promessi sposi”. Anche S. fu colpito, naturalmente. Circa una ventina di persone, uomini, donne e bambini, si ammalarono. Furono mandati al castello. Era abitato da un certo monsignor Gaetani. Si diceva fosse un sant’uomo, che parlasse con i santi, che avesse le stigmate e che curasse le malattie. Gli ammalati ci andarono. Non tornarono mai più. A partire da allora, ad ogni anniversario della loro misteriosa scomparsa, si facevano delle processioni e il monsignore benediva i sotterranei. Benedizioni che si protrassero fino alla seconda guerra mondiale. A partire dal 1944, smisero. Il castello era stato colpito da un aereo inglese. Ricostruito dopo la guerra, non fu più meta di pellegrinaggi. Ormai si era troppo occupati con il lavoro e la ricostruzione, i giovani diventavano dei miscredenti e si trasferivano in città, tra vizi e bordello. Questo disse la vecchia Angelina.

“Questo è tutto quello che so”, concluse poi. “Tutti pensavano che lo strazio fosse finito, ma evidentemente non è così”.

Di quale strazio stava parlando? E che fine fecero quelle persone? Se erano morte, dove erano stati sepolti i loro cadaveri? Forse li sotto, dove li aveva visti Jennifer. Dovevano essere li sotto. Ma il perché dei loro tormenti, i due non lo seppero mai.

3 giugno 1997

See ya! :-P LOL

1 comment:

Anonymous said...

Questo racconto, forse in coppia con l'altro che gia' avevo detto tale, potrebbe essere la prima parte perfetta per un fumetto di Dylan Dog... o forse anche addirittura per uno di Dampyr. L'ambientazione contemporanea, il contesto storico, l'aspetto horrorifico sono curati in maniera molto interessante, offrendo al complesso del racconto un gusto molto piacevole. Devo ammettere che per certi versi "impressiona" meno rispetto all'ultimo del cimitero, proprio per le ragioni la' esposte: qui il "male", seppur privo di una spiegazione, non resta affidato alla mente del lettore ed alle sue angosce interiori, ma viene mostrato in tutto il proprio aspetto piu' puro, in un contesto che sembra anche richiamare un po' le opere filmiche di Romero. Di questo, piu' che dell'altro, si sente la mancanza di un vero e proprio finale, di un proseguo in cui gli stessi ragazzini o un altro "eroe" giunga a comprendere cosa e' successo e ad offrire una conclusione agli eventi...

Pollici alzati, ovviamente, per questo nuovo, avvincente racconto, con l'unica tristezza che risulta gia' essere purtroppo l'ultimo di questa serie.
Poi ricordami di raccontarti una piccola ghost story "reale" che riguarda un posto vicino a casa mia, se ti puo' interessare... chissa' che non ti spinga la fantasia nuovamente verso questo genere!

Aspetto comunque con interesse di poter leggere tue nuove opere...